Iniziamo da una doverosa premessa sull’autorevolezza di quanto segue:
Sono un filosofo prestato al giornalismo, non ho alcuna competenza specifica in ambito epidemiologico o medico.
Detto questo, non sono particolarmente preoccupato dall’epidemia di SARS-CoV19. Indubbiamente per chi perderà una persona cara questa malattia sarà certamente la fine del mondo – e sì, credo che dire “tranquilli muoiono solo quelli che hanno già un piede nella fossa” non sia una bella cosa – ma nel complesso dubito che l’epidemia in corso sarà l’apocalisse che alcuni temono. E questo, va detto, anche grazie alle misure di prevenzione.
Non resteranno solo macerie, dell’umanità. Ma ecco, appunto: che cosa resterà di questa epidemia? Che cosa ci avrà lasciato la paura per il coronavirus? Intravedo due possibili scenari.
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Primo scenario, molto ottimista
La paura per il contagio ha spinto a interiorizzare pratiche igieniche come lavarsi spesso e bene le mani o tossire e starnutire nell’incavo del gomito, disinfettare regolarmente i luoghi di lavoro – diventate abitudini, cose normali. La paura per il contagio ha anche portato, sul luogo di lavoro, al tramonto di quella cultura per cui “chi sta a casa per un po’ di tosse è un lavativo”.
La paura del contagio ha anche portato ad abbandonare o rivedere alcune tradizioni che, per quanto radicate e magari legate alla religione, possono portare alla diffusione di malattie come il Covid-19 – iniziando ad esempio dalla macellazione di animali selvatici nei mercati dove il virus pare abbia fatto il “salto di specie”.
La paura del contagio ha anche portato le autorità a prepararsi meglio a un’epidemia. Evitando ad esempio di ragionare per confini politici e amministrativi (o peggio ancora per nazionalità o tratti somatici) ma guardando ai reali spostamenti delle persone. Coordinando le misure a livello locale e internazionale, in modo che ci sia coerenza nelle decisioni. E informando in modo chiaro la popolazione (direttamente e attraverso i media), non solo su cosa fare o non fare adesso, ma sul perché è meglio farlo o non farlo e su quali saranno le possibili decisioni future.
Secondo scenario, pessimista realista
A questo scenario ottimista, se ne affianca uno pessimista.
Una volta passata l’epidemia – o addirittura una volta che ci si sarà abituati all’epidemia –, tutto come prima: nessun cambiamento di abitudini, nessun ripensamento. Le mani sempre lavate con una veloce passata sotto il getto d’acqua; con un po’ di febbre si prende un antipiretico e si va, starnutendo e tossendo, al lavoro, baci e abbracci a reliquie toccate da migliaia di persone eccetera.
E le autorità sanitarie che non solo non studiano nuovi piani per gestire future epidemie, ma si scontrano con la scarsa fiducia della popolazione che non crede più a quel che dicono ed eventualmente impongono.
Di solito la paura non porta a comportamenti razionali – per questo l’ultimo scenario, più che pessimista, è purtroppo realista.
Aggiornamenti
Su Twitter mi segnalano che lo scenario ottimista è grosso modo quello che è accaduto a Taiwan dopo la Sars.
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