Premessa 1.
A me, personalmente, del 5G frega poco: col mio attuale ritmo di adozione delle nuove tecnologie, avrò un dispositivo in grado di supportare questa tecnologia non prima di un paio d’anni e, in ogni caso, per il mio utilizzo abituale della rete le velocità attuali sono più che sufficienti. Che un film si scarichi in venti minuti o in venti secondi a me cambia poco: sempre due ore ci metto, a guardarlo.
Sono poi certo che sia una tecnologia importante dalle applicazioni utili e interessanti, delle quali certamente usufruirò anch’io – per quanto, almeno all’inizio, indirettamente.
Premessa 2.
Non sono un esperto di onde elettromagnetiche, di radiazioni non ionizzanti eccetera. Figuriamoci sugli eventuali effetti biologici. Ho giusto qualche reminiscenza degli studi liceali, qualche lettura recente – cose che al più fanno di me una persona un vagamente informata, forse più della media ma certamente non un esperto in grado di giudicare la validità di uno studio sulla dannosità del 5G.
Fatte queste due premesse, che cosa dovrei pensare degli operatori telefonici che stanno installando nuove antenne o aggiornando al 5G quelle esistenti? Sostanzialmente nulla, perché appunto ho pochissimi elementi diretti.
Devo fidarmi.
Devo fidarmi degli scienziati che hanno studiato e stanno studiando gli effetti delle radiazioni elettromagnetiche, devo fidarmi dei loro metodi di ricerca, devo fidarmi di chi finanzia questi studi.
Devo fidarmi degli ingegneri che costruiscono e installano le antenne, delle aziende che li pagano.
Devo fidarmi della politica che stabilisce dei limiti, vigila sul loro rispetto e concede delle deroghe.
Ecco, di quel che sta accendendo – in Svizzera e anche altrove – sul 5G, con bufale più o meno catastrofiche, proposte di moratorie, persino atti vandalici, a me interessa soprattutto questo: la fiducia che non c’è.
Perché verosimilmente questa ostilità verso il 5G è un fenomeno temporaneo: tempo un paio d’anni e a parte uno zoccolo duro di luddisti apocalittici nessuno ci farà più caso, salvo il caso di antenna davanti casa – che peraltro non vorrei neanch’io, brutte come sono. Insomma, nessun danno permanente, solo un po’ di ritardo nella diffusione della copertura 5G.
Ma la sfiducia, quella resterà, forse risulterà addirittura rinforzata, se la pericolosità del 5G diventerà un luogo comune impresso nella mente delle persone – che magari ne discutono oziosamente bevendo del vino e fumando una sigaretta.
Che cosa intendo con sfiducia?
Non la semplice diffidenza: quella è perlopiù salutare e benvenuta. Tutti – scienziati, ingegneri, politici, industriali, filosofi, giornalisti – siamo esseri umani e possiamo sbagliare, sottovalutare alcuni aspetti e sopravvalutarne altri. E in gioco ci sono importanti interessi economici che certo influenzano il dibattito. Dal fumo al riscaldamento globale, non mancano gli esempi di pericoli minimizzati più o meno in buona fede: sarebbe ingenuo escludere a priori che possa accadere di nuovo.
Ma si tratta appunto di un sano scetticismo, quello per cui si cercano motivi per dubitare e non solo per credere. O, per dirla con Hume, quello della persona saggia che “proporziona le proprie credenze alle prove di cui dispone”. Poi certo, le prove che abbiamo sono indirette – che di quelle dirette, per la premessa 2, sappiamo poco – ma comunque sufficienti. Voglio dire: le aziende di telefonia sono certamente interessate a farci spendere tanti soldi per dispositivi 5G, ma – anche ammettendo che siano guidate da persone prive di qualsiasi scrupolo – sono anche interessate a non spendere il doppio di quanto guadagnato in risarcimenti. Cosa che prima o poi capiterebbe di sicuro, se ci fossero rischi seri – come accaduto ad esempio alle industrie del tabacco. Senza dimenticare che anche i sostenitori del complotto del 5G hanno di che guadagnarci…
Perché la differenza tra quello che ho chiamato sano scetticismo e la sfiducia è appunto questa: si rifiuta qualsiasi argomento della parte “ufficiale”, ma si accettano senza alzare un sopracciglio tutto quel che arriva dalla parte degli “alternativi”. È la differenza tra pensare di avere a che fare con persone – scienziati, ingegneri, politici, industriali, filosofi, giornalisti – che possono sbagliarsi (per superficialità, per pregiudizi, per tornaconto), e sentirsi circondati da esseri insensatamente malvagi.