A inizio marzo avevo scritto di “non [essere] particolarmente preoccupato”; penso sia il caso di ammettere di essere stato troppo ottimista: le conseguenze di questa epidemia le avvertiremo molto a lungo – per sempre, chi avrà perso una persona cara.
Inizio con questa ammissione perché non voglio che quanto segue venga preso come una minimizzazione della situazione: è e sarà dura, e ci vorrà la cooperazione di tutti. Ma non siamo in guerra con il virus SARS-CoV-2 e penso sia il caso di ridurre i riferimenti bellici, nei discorsi che facciamo sull’epidemia – discorsi nei quali invece le medicine sono armi, i medici truppe, gli ospedali fronti e così via.
Ripeto: non lo dico perché credo vada tutto bene. E neanche perché non veda punti di contatto con una guerra: i morti e i ricoverati, la sospensione della vita di tutti i giorni, i danni sociali ed economici. Ma le metafore sono infide, sfuggono di mano: non si limitano ad alcuni punti di contatto, ma si espandono e portano con sé tutto l’immaginario collettivo – in questo caso della guerra.
È come se inserissimo l’epidemia in corso dentro lo stampo della guerra: quel che rientra nello stampo diventa più evidente, quello che rimane fuori più difficile da vedere e da raccontare.1
Segue un piccolo esempio sugli effetti della metafora: se non siete interessati passate pure al paragrafo successivo.
Per un certo periodo ho studiato le metafore del Dna. Quando parliamo del Dna come del “progetto” dell’organismo abbiamo certamente delle ragioni: due Dna diversi ci daranno due organismi diversi, esattamente come due progetti diversi ci danno due case diverse. Però l’idea del progetto porta con sé non solo l’idea di un determinismo scientificamente insostenibile, dove per ogni caratteristica dell’individuo ci deve essere un gene corrispondente,2 ma anche l’idea di un progettista, aprendo le porte non dico al creazionismo o all’Intelligent design, ma comunque a storture nell’interpretazione dell’evoluzionismo.3
Oppure l’idea – ed era questo il tema della mia ricerca – che il Dna si possa brevettare come si brevettano i progetti, e non sia il caso di ricorrere ad altre soluzioni per la tutela della proprietà intellettuale.
Ma torniamo alla guerra e all’epidemia. Perché dico che non siamo in guerra, o meglio che non dobbiamo pensarci in guerra? Perché di solito nelle guerre l’obiettivo è sconfiggere un nemico – e si tratta, per così dire, di un obiettivo assoluto, per raggiungere il quale dobbiamo essere disposti a qualsiasi sacrificio e a qualsiasi danno collaterale.4 Quando invece nell’affrontare questa epidemia credo che l’obiettivo di tutti debba essere ridurre il più possibile i danni diretti e indiretti. A questo possiamo poi aggiungere medici e infermieri come eroi di guerra – quando invece sono professionisti che è giusto operino in condizioni di sicurezza.
E non dimentichiamo i contagiati: vittime, soprattutto se i sintomi comportano il ricovero – ma al contempo fonte di ulteriori contagi, e quindi “agenti del nemico”, collaborazionisti. E traditori sono anche quelli che non rispettano le regole e raccomandazioni, persino se non mettono in pericolo nessuno e la violazione riguarda qualche interpretazione insensatamente rigida.
Come accennato, le metafore le ho studiate un po’ e so che non basta dire “basta parlare di guerre”: occorre un’alternativa.
C’è chi – riferendosi soprattutto all’isolamento – ha parlato di maratona. Certamente meglio, ma è una metafora che non mi convince completamente: tralasciando le origini militari (la Battaglia di Maratona, tra l’altro anche quella contro un nemico che arrivava da oriente), la maratona è una gara. Anche se immagino che molti vi partecipino per soddisfazione persona, rimane una competizione e quando si arriva alla fine si festeggia. Con l’epidemia non si tratta di arrivare primi, ma di arrivare tutti insieme – e dubito che un bel giorno arriverà il comunicato “l’emergenza è finita” con concerti, baci e abbracci nelle strade e nelle piazze (che temo creerebbero un nuovo focolaio).
L’epidemia in corso è piuttosto un viaggio, e qui penso a un’impegnativa traversata – di un oceano, di una montagna, fate voi – non alla gita fuoriporta o al fine settimana al mare dagli amici. Si va tutti insieme, aiutando chi rimane indietro, perché l’obiettivo non è sconfiggere le avversità che si incontrano o battere gli altri, ma arrivare a destinazione tutti insieme e nel miglior modo possibile – il che vuol dire ovviamente ridurre disagi e sacrifici, cercare di mantenere il più possibile quella normalità persa con la partenza.
A un certo punto si sarà raggiunta la metà del percorso, si sarà superato il passo e la strada sarà in discesa, si avvisteranno i primi segni della costa: una buona notizia, ma non c’è da festeggiare perché il viaggio non è ancora finito. E non ci sarà da festeggiare neppure arrivati, perché si dovrà ormeggiare in sicurezza, montare le tende eccetera. E non dimentichiamoci che questo viaggio non ci ha riportati a casa, ma in un altro luogo che dovremo conoscere.
Ma forse non è neanche vero che occorre un’alternativa. Secondo alcuni è possibile neutralizzare le metafore. Del resto non ci facciamo ingannare dai colli delle bottiglie o dalle teste dei treni, capiamo perfettamente fino a che punto lasciarci guidare da queste metafore – sappiamo, in poche parole, che una bottiglia non deve preoccuparsi del mal di gola e un treno il mal di testa.
Certo, qui la situazione è diversa e la soluzione non è forse “normalizzare la metafora” come con i colli delle bottiglie (che è una catacresi, e insomma non saprei neanche come altro definirla quella parte della bottiglia se non collo) ma al contrario, problematizzarla. Rendersi conto che sì, parliamo di medici al fronte, di infermieri in prima linea, di battaglia contro i contagi, di armi per sconfiggere il virus – ma che sono metafore e che non siamo davvero in guerra.
Non sono il solo
È un po’ di giorni che ho in mente questo articolo.
Nel frattempo altri hanno scritto cose simili: Gianluca Briguglia sul Post, Daniele Cassandro su Internazionale e, in un’intervista su Riforma.it, Antonio Spadaro.
Dopo di me è uscito anche, su Il Tascabile, Giancarlo Sturloni.
Un discorso più ampio sulla narrazione del #iorestoacasa è quello di Antonio Vercellone su Doppiozero, così come Fabrizio Battistelli su Micromega. Abbiamo poi, sempre su Internazionale, Annamaria Testa e, su ValigiaBlu, Matteo Pascoletti e sicuramente altri che mi sfuggono.
Confesso che questo interesse per le metafore un po’ mi sorprende: non pensavo fosse un tema così sentito e questa attenzione al linguaggio – che non è solo con cui esprimiamo quel che pensiamo, ma anche quello con cui pensiamo – penso sia molto positiva.
Nessuno, mi pare, ha comunque proposto la metafora alternativa del viaggio – che non è comunque farina del mio sacco ma che ho trovato più volte citata in vari saggi.
Tra l’altro, viaggio e guerra sono due metafore spesso usate per le relazioni sentimentali (che iniziano con la conquista del partner e si chiudono con la decisione di percorrer due strade diverse).
Aggiornamenti
26 marzo alle 16. Rispetto alla stesura iniziale, ho modificato la parte sulla metafora del viaggio, seguendo alcune osservazioni di Sonia Ciampoli su Facebook.
1º aprile alle 23. Ho aggiunto un altro articolo all’elenco e la parte sul neutralizzare le metafore.
12 aprile: altri articoli sullo stesso tema.
- Di libri e articoli sul tema ce ne sono a migliaia, per cui mi limito a citare gli scritti di George Lakoff, per quanto non sia certo l’unico ad aver scritto di metafore. [↩]
- Su questo aspetto rinvio al recente Sillabario di genetica di Guido Barbujani. [↩]
- Su questo, c’è un bell’articolo introduttivo di Massimo Pigliucci (in inglese). [↩]
- Anche qui di riferimenti ce ne sarebbero tanti e mi limito a un interessante articolo sull’Atlantic. [↩]
4 commenti su “Il lungo viaggio del nuovo coronavirus (ovvero smettiamola di dire che siamo in guerra)”