Il problema dell’ontologia sociale (che è poi il problema dell’esistenza degli oggetti sociali) è affrontabile da due punti di vista diversi.
Il primo, dall’alto o metafisico, è quello di chiedersi cosa va incluso in una descrizione completa della realtà. Quanto ampio deve essere il catalogo del mondo per poter funzionare?
Un catalogo che esclude cose come le promesse, i matrimoni e le multe non è un buon catalogo: questi sono oggetti che esistono, non si lasciano ridurre né ai pensieri delle singole persone (la multa rimane nonostante il mio indubbio desiderio di farla sparire), né agli oggetti materiali (il matrimonio non comporta praticamente nessun cambiamento fisico, eppure si passa dall’essere uno scapolo all’essere un marito).
Il secondo approccio, dal basso o linguistico, parte da alcuni particolari atti linguistici particolari, i performativi. Quando dico “ti prometto che domani andremo al cinema” non sto descrivendo qualcosa che esiste indipendentemente dalle mie parole: se io non pronunciassi quella frase non vi sarebbe alcuna promessa. Similmente per il ” le conferisco la laurea in … e la nomino dottore in …” pronunciato dal presidente della commissione di laurea: è con quelle parole lì, se pronunciate nel giusto contesto, che una persona si laurea (e si ritrova disoccupata, se sostituite i puntini con “filosofia”).
Se un performativo non è una descrizione ma permette di fare delle cose (How to Do Things With Words, Come fare cose con le parole, è il titolo del libro di J. L. Austin dal quale tutto ha avuto inizio), è allora ovvio che le promesse e i dottori in filosofia sono cose (oggetti sociali) che esistono.
Che si parta dall’alto della metafisica o dal basso degli atti linguistici, gli oggetti sociali esistono, e di questo ne siamo tutti felici e contenti.
Il problema è che poche cose sono dannose come una dieta monotona di esempi, perché non è affatto detto che quello che funziona per i matrimoni e i dottori in filosofia funzioni anche per tutte quelle cose che, di volta in volta, vengono chiamate oggetti sociali: squadre di calcio, partiti politici, coppie di fatto, romanzi, furti, eccetera.
Prendiamo un classico dell’ontologia sociale: la promessa. Non ho compiuto ricerche bibliografiche approfondite e sicuramente il mio è un disdicevole pregiudizio, ma sono pronto a scommettere che sia impiegato come (buon) esempio soprattutto in area anglosassone, dove una promessa è una promessa ed è riprovevole venire meno alla parola data, mentre nell’area mediterranea, su queste cose meno rigida (vedi le promesse elettorali), ci si sente più a disagio a impiegare la promessa come esempio di oggetto sociale.
Perché una promessa elettorale non è un buon esempio di oggetto sociale? Indubbiamente esiste, perché quando il candidato afferma che in caso di vittoria rimetterà in sesto i conti di Alitalia o abbasserà le tasse, si assume un impegno, per quanto vago e generico, e altrettanto indubbiamente questa promessa è un qualcosa di sociale.
Probabilmente, il disagio nasce dal fatto che una promessa elettorale non gode di quelle proprietà che siamo soliti aspettarci dagli oggetti: unità, continuità e coerenza. Esiste, ma non è un oggetto.
Lo stesso vale per molti altri presunti oggetti sociali. Forse vale per tutti gli oggetti sociali. Una squadra di calcio, ad esempio, può essere una cosa terribilmente vaga e sfumata: è una società ma è anche l’insieme dei calciatori o, non dimentichiamolo, un nome amato dai tifosi; discorsi simili valgono per i partiti politici e persino per i matrimoni, la cui fine non necessariamente coincide con la separazione ufficiale.
Abbiamo qui un qualcosa di ben definito e indubbiamente solido (la società sportiva, l’associazione partito, il contratto matrimoniale) che sicuramente merita di essere un oggetto ma che coincide solo in parte con quello che siamo soliti intendere con squadra di calcio, partito e matrimonio (o famiglia).
È un problema di ampiezza di confini: da una parte rigidi e ben definiti, dall’altra vaghi e sfumati.
Possiamo forse concludere che gli oggetti sociali non esistono. Esistono delle entità (delle cose) sociali che non meritano il nome di oggetti, e vicino ad esse (sopra di esse) esistono degli oggetti giuridici, unitari, ben definiti e coerenti.
Come dicono gli inglesi: DRAFT: DO NOT CITE
Bozza, non citate (e siate clementi nei commenti).
Obiezione stupida: che senso ha distinguere gli oggetti sociali dagli oggetti fisici e poi dire (o ipotizzare) i primi non esistono perché mancano dei tratti (“unità, continuità e coerenza”) dei secondi? E’ come distinguere i fantasmi dai vivi, e poi dire che i fantasmi non esistono perché passano attraverso i muri. Magari non esistono, i fantasmi, ma il criterio non può essere quello.
@Caminadella: Aspetta, gli oggetti sociali esistono (se si assumono criteri di esistenza sufficientemente liberali), però non sono oggetti. Sono qualcosa d’altro, di sfumato e cangiante, dei quasi-oggetti, se vuoi.
Gli unici oggetti sociali realmente tali sono gli oggetti giuridici (ma più in generale dove ci sono regole costitutive, quindi anche negli scacchi).
Se devi in questa direzione, ti possono obiettare che ti fidi troppo del diritto. In particolare, che ti immagini che abbia una solidità, unità e coerenza che altri fenomeni sociali (come il tifo calcistico) non hanno. Mentre spesso è fantasmatico anche il diritto.
Per esempio, avrai letto la storia dell’interprete iraniano che deve rinunciare a una delle sue mogli perché ha trovato rifugio in Europa, che non riconosce la poligamia. Ecco un bel caso di oggetto che esiste in Iran (il matrimonio con quella moglie) ma sparisce appena arriva in Danimarca.
Quindi: sei sicuro che il matrimonio sia un oggetto, o un quasi-oggetto, più solido della Juventus, che può andare a giocare a Teheran come a Copenhagen?
anch’io parlo senza stretta cognizione bibliografica, ma il fatto della promessa elevata ad esempio soprattutto fra i teorici anglosassoni “suona parecchio” (forse uno dei problemi di certa filosofia analitica, o anglosassone, è che non viene mai in vacanza da queste parti o da altre, ed ha una concezione abbastanza auto anglosassone della realtà sociale).
riguardo il negare lo status di oggetto agli oggetti sociali, beh, forse non basta essere sfumato e dai confini labili per non essere oggetto. il tutto sta inevitabilmente nel come intendi ed adoperi qui “oggetto” (per altro in che senso lo distinguiamo da una “cosa”, o “entità”), la domanda che forse ci si potrebbero porre è se una nuvola sia un oggetto? oppure fare vari esempi -e la vedo controversa- di che cosa non è un oggetto ma esiste (per dire, un concetto lo possiamo considerare un oggetto mentale).
comunque molto stimolante il tutto
In altre discipline scientifiche (matematica, fisica), è ben noto che non esiste il “modello” definitivo della realtà. Un modello è un qualcosa che tenta di spiegare la realtà, ma che deve essere notevolmente più semplice della realtà (altrimenti diventa inutile). Per questo si compiono delle astrazioni e semplificazioni. Quante semplificazioni e quali? dipende che ci devi fare con il modello. Come ricordava “Progetto Galileo” qualche post fa, il modello di gravitazione newtoniano va ancora benissimo se uno si accontenta di calcolare l’orbita dei pianeti del sistema solare con un certo grado di approssimazione, ma se vuole spiegare certi effetti sull’orbita di Mercurio, deve usare modelli più complessi.
Dopo questa lunga premessa, ti chiedo: ma che ci deve fare il filosofo con gli oggetti sociali? (a parte farsi quattro chiacchere la sera dopo cena di fronte a un buon bicchere di vino). Magari questo potrà aiutarci a definirli più concretamente e utilmente, e a capire se il modello è sufficientemente preciso e dettagliato.
@Caminadella: Oh sì, la Juve può giocare a Teheran, ma se perde i tifosi diranno che “non è la stessa Juve di un tempo”.
Quanto al matrimonio: essendo un oggetto giuridico, mi aspetto che abbiano valore all’interno di una particolare giurisdizione. Ti faccio inoltre notare che se un matrimonio iraniano non viene riconosciuto in Danimarca questo mancato riconoscimento è comunque un fatto certo, che potrà venire cambiato solo da un altro fatto certo (un’altra sentenza, ad esempio). È insomma tutto regolamentato, contrariamente ai discorsi dei tifosi che sono a ruota libera,
@fran-tes-to: Secondo me le nuvole non sono oggetti. Più in generale, un oggetto è tale se si può tracciare un confine sufficientemente stabile con altri oggetti (e se mi chiedi cosa voglia dire sufficientemente, non ti so rispondere).
@knulp: Giustissima l’osservazione sui modelli, ne farò tesoro. Quanto all’utilità: ti rendi conto che stai chiedendo “a cosa serve” a un filosofo? 😉
Questi oggetti sociali non mi sembra si possa dire che esistano a prescindere dagli esseri umani: non ha senso una promessa fra due rocce o fra due protoni.
Non esistono nemmeno in tutte le culture allo stesso modo: il matrimonio, ad esempio, non è presente in tutte le culture.
Inoltre questi “oggetti” esistono a seconda di chi li pronuncia: le parole che laureano, ad esempio, creano un laureato solo se dette da alcune persone, non da chiunque.
Fatte queste premesse, non sono sicuro dell’oggettività di questi “elementi” (chiamoli così).
Certo,non sono riducibili ai pensieri delle SINGOLE persone, ma non esistono a prescindere di un accordo (implicito od esplicito) fra un certo numero di persone. Non sembrano essere, dunque, oggettivi (a differenza degli oggetti fisici che esistono a prescindere dagli accordi fra esseri umani).
E’ meglio chiamarli “oggetti sociali” o “convenzioni sociali”?
@Kirbmarc: Quello che dici è corretto: gli oggetti sociali non sono oggetti fisici, e su questo insistono molto un po’ tutti gli autori. Una montagna esiste indipendentemente dagli uomini, e continuerebbe ad esistere anche se l’umanità sparisse, il confine di stato che magari coincide con la vetta, chiaramente, no: ci vogliono gli uomini perché esso esista.
Il confine è comunque qualcosa di oggettivo: non dipende da me o da te, ed è anche in questo senso che è qualcosa di più di una semplice convenzione. Una convenzione è arbitraria, mentre l’esistenza di un confine di stato non lo è. Certo, posso immaginare una società nella quale non ci sono confini, ma abbiamo a che fare con una società completamente diversa.
Faccio un altro esempio: negli scacchi è una convenzione che per il sorteggio iniziale si usino i re. Posso tranquillamente usare un pedone o una torre, o giocarla a morra cinese senza turbare il gioco. Non è una convenzione del gioco il fatto che l’alfiere si muova in diagonale o la definizione di scacco matto, perché cambiando queste regole cambio gioco: non sto più giocando a scacchi, ma ho inventato un altro gioco.
Si tratta, comunque, di stabilire quali siano i criteri di esistenza che vogliamo accogliere.
Possiamo affermare che la realtà è quella descritta dalla fisica, e tutto il resto sono solo abbreviazioni, così quando dico “sasso” intendo “quel miliardo di miliardi di particelle lì”. Oppure possiamo essere un po’ più liberali e ammettere che esistano anche il teorema di Pitagora e i licei nei quali questo viene insegnato.
Innanzitutto bisogna mettersi d’accordo se l’esplorazione dell’argomento proposto debba essere attuata mediante le categorie del diritto o tramite quelle della filosofia (non del diritto, naturalmente). Nel caso del matrimonio, ad esempio, ragionando giuridicamente di sarebbe più propriamente in presenza d’un “istituto”, piuttosto che d’un “oggetto”. L’istituto presuppone un’azione istitutiva e il verbo istituire, pertanto un atto volitivo di chiara derivazione umana che non lascia molto spazio a trascendenze di sorta né a equivoci ontologici.
@lector: Searle, nel suo La costruzione della realtà sociale, parla di fatti istituzionali (contrapposti ai fatti “bruti”). Bisognerebbe vedere qui il termine dell’originale, comunque il concetto di istituzione c’è.
L’atto di volizione c’è, ma solo all’inizio. Scelgo di sposarmi, ma una volta sposato non posso scegliere di non esserlo: il matrimonio c’è e trascende la mia volontà.
Quanto agli equivoci ontologici: andrebbero esplicitati i criteri di esistenza che uno adotta (Gli atomi esistono? E le sedie? E Alessandro Manzoni? E I Promessi Sposi? E Lucia dei Promessi Sposi?). Non lo si fa mai perché si rischia di perdere un sacco di tempo, ma andrebbe fatto. Il tuo riferimento alla trascendenza, ad esempio, mi fa pensare che tu abbia in mente una sorta di iperuranio degli oggetti sociali. Io non penso a nessun iperuranio, eppure sono convinto che i matrimoni esistano… soprattutto il mio, ma questo è un altro discorso 😉
“Una convenzione è arbitraria, mentre l’esistenza di un confine di stato non lo è.”
Uhm..no. E’ frutto di un accordo arbitrario fra vari soggetti, e si può variare, spostare o abolire a seconda di un altro accordo arbitrario fra vari soggetti.
“Non è una convenzione del gioco il fatto che l’alfiere si muova in diagonale o la definizione di scacco matto, perché cambiando queste regole cambio gioco: non sto più giocando a scacchi, ma ho inventato un altro gioco.”
Sì, ma è una convenzione che quelle regole definiscano un gioco chiamato “scacchi”. Una convenzione fra un numero largo di persone, ma non qualcosa di indipendente dagli esseri umani. Ci sono società nei quali gli scacchi non esistono…
“Possiamo affermare che la realtà è quella descritta dalla fisica, e tutto il resto sono solo abbreviazioni, così quando dico “sasso” intendo “quel miliardo di miliardi di particelle lì”. Oppure possiamo essere un po’ più liberali e ammettere che esistano anche il teorema di Pitagora e i licei nei quali questo viene insegnato.”
Dipende tutto da cosaPossiamo affermare che la realtà è quella descritta dalla fisica, e tutto il resto sono solo abbreviazioni, così quando dico “sasso” intendo “quel miliardo di miliardi di particelle lì”. Oppure possiamo essere un po’ più liberali e ammettere che esistano anche il teorema di Pitagora e i licei nei quali questo viene insegnato.”
Dipende da cosa si intende per “esistere”. A mio avviso, è un verbo con più di un significato…
😉
ho l’impressione che il discorso sia slittato da una domanda del genere “cosa esiste” a una del genere “come posso conoscere se qualcosa esiste, e se esiste come posso conoscerlo, e se lo conosco vuol dire che esiste?”.
@Kirbmarc: Forse sono stanco io, ma mi sembra che diciamo le stesse cose…
@alex: Io sono un grande sostenitore del collasso dell’ontologia sull’epistemologia! Se lo conosco, vuol dire che esiste; se non posso conoscerlo, che importanza ha che esista?