Ludwig van Beethoven compose nove sinfonie.
Franz Listz, che una leggenda vuole baciato da Beethoven dopo che questi lo aveva ascoltato suonare, trascrisse queste sinfonie per pianoforte. Non è facilissimo trovarle nei negozi di dischi; fortunatamente anche in questo caso internet viene in aiuto.
Dalla ricchezza timbrica di un’orchestra sinfonica al suono di un pianoforte solo. Verrebbe da dire: dai colori di un’orchestra al bianco e nero del pianoforte.
È una semplice metafora o qualcosa di più?
La considerazione che mi nasce spontanea è legata al modo di vedere la gestione di frequenze. La caratteristica che certo accomuna un fascio di luce non coerente e la percussione di una o più corde è proprio nella ricchezza delle armoniche. Dov’è che fallisce l’analogia (ovvero ben più di una metafora)? E’ nell’aria di interpretazione. Gli studi che ho potuto consultare (un po’ di anni indietro per la verità) tenevano separati per la nostra specie sia i sensori che le aree interpretative di questi stimoli che fisicamente sono essenzialmente diversi (onde meccaniche che si propagano solo in presenza di un mezzo trasmissivo versus onde/particelle che si propagano nel vuoto). Essendo un anti-dualista ho sempre sofferto questa divisione ma i mezzi a mia disposizione non mi consentono di proporre teorie alternative che abbiano validità scientifica.
Un sorriso
Ovviamente l’orchestra ha uno spettro di frequenze molto più ampio di un pianoforte: basta pensare che certi ottoni (come il corno) suonano varie note come armonici naturali, mentre il pianoforte è temperato; in alcuni pezzi da camera di Brahms questi screzi sono volutamente evidenziati per creare tensione e ricchezza.
Come forse saprai Glenn Gould ha inciso una bellissima versione della quinta sinfonia nella trascrizione di Listz, scrivendo anche delle ironiche note d’accompagnamento in cui imitava le recensioni più o meno oltraggiate di vari critici. L’ampia letteratura delle trascrizioni orchestrali è sempre stata considerata di serie B, roba da salotto come d’altra parte nasceva quando serviva a sapere com’era in sostanza la sinfonia di Beethoven quando non c’erano i dischi e raramente i concerti. I pianisti moderni suonavano solo la musica che nasceva pianistica per poi diventare orchestrale (ad esempio Ravel). Nel ‘900 siamo diventati dei fanatici del suono e del suo colore ma abbiamo disimparato a guardare alla musica in sè, al punto che stiamo a confrontare i dettagli delle interpretazioni (quasi uguali) di una qualsiasi mazurka di Chopin senza renderci conto che magari quella mazurka vale poco, che Chopin l’aveva scritta in mezz’oretta e doveva servire da fugace intrattenimento.
Gould credo sia stato il primo a ribaltare questo paradigma, suonando al pianoforte un pezzo come La Valse, il trionfo del timbro orchestrale, e trascrivendo in maniera minimale l’Idillio di Sigfrido di Wagner, in modo tale da ridurre al massimo lo spettro dei colori. Con il suo stile asciutto, lo scarso uso del pedale di risonanza, ed una speciale accordatura dello strumento che lo faceva tendere ad un clavicembalo (pensa che avrebbe voluto poter incidere al telefono) toglieva armonici per dare risalto alla struttura, al contrappunto, gli intervalli, e quindi alla partitura che nell’orchestra si confonde e perfe via: le note nere sulla carta bianca, ancora. Ovviamente non tutta la musica si presta, da qui l’amore di Gould per Bach (diceva che una fuga di Bach poteva essere suonata da un quartetto di tube e non avrebbe fatto differenza).
Quindi la risposta è si, non è solo una metafora.
@il più Cattivo: A livello di sensazione e percezione è così importante il fatto che le onde sonore siano così diverse da quelle luminose?
Voglio dire: la luce di una lampada a incandescenza e quella di una lampada al neon sono molto diverse – ma poco cambia, per l’occhio: entrambe illuminano la stanza (colore della luce a parte, ovviamente).
@tomate: Ecco una cosa che mi piace molto di questo sito: una semplice suggestione di un ignorante appassionato di musica provoca un commento preciso e puntuale come queste, per il quale ti ringrazio.
@ Ivo:
Per quel poco che posso esprimere, ma qui richiamiamo di nuovo Paola, le differenze sono enormi. Mi sembra che tu stesso nel definire due sorgenti che lavorano nello stesso spettro già le distingui, figuriamoci utilizzando dei sistemi assolutamente diversi. Le differenze potrei paragonarle all’assorbimento di anidride carbonica mediante respirazione o medante bevande gassate.
Quello cui mi sarebbe piaciuto discutere sono le affermazioni, anche da me particolarmente apprezzate, di tomate, ma il mio livello musicale purtroppo mi sostiene ancora meno.
Mi limito alla parte “sensoriale”. Quando qualcuno fischietta un motivetto lo riconosci anche se non ne condivide le caratteristiche spettrali che sono legate agli strumenti usati nella registrazione che adoravi.
Ne leggo quindi un messaggio che estrapolo dal segnale (va beh se non avete fatto teoria dei segnali e comunicazione elettriche e mi mandate a cag… siete autorizzati espressamente dal sottoscritto) in modo indipendente dalle caratteristiche fisiche. In tal modo se la ricchezza armonica di un suono genera delle sensazioni analoghe a quelle che può generare una giostra di luci piuttosto che un dipinto o un filmato, posso dire che quello che estraggo è una “equipollenza” di varietà o ricchezza?
Qui si scontra con la realtà ovvero:
quali dei nostri sensi possono essere dotati di una capacità di discernimento equivalente?
Diresti mai che un piatto di spaghetti scondito è “in bianco e nero” mentre uno allo scoglio (o come più ti piace) è una giostra di luci?
Oppure descriveresti analogamente la differenza tattile tra una lastra di marmo ed un tessuto ricamato?
Da un punto di vista evoluzionistico è sostenibile che la “potenza” dei sensi si sia sviluppata in modo bilanciato (l’odorato di un cane è in grado di fare cose che noi facciamo fatica a descrivere, ed esempi di questo genere potrebbero riempire le fosse)
Qui lascio la parola al mio filosofo preferito (dai che un giorno potresti diventare tu, ma al momento, perdonami, è ancora D.Dennett) e ritengo di dover valutare meglio quel che ricordo di “l’io della mente”…
Un sorriso
P.S. Dopo aver recuperato un po’ di Dennett mi piacerebbe tornarci sopra.
@il più Cattivo: Evolutivamente, mi sembra invece sensato che la “potenza dei sensi” si sia sviluppata verso gli stimoli più presenti e informativi: vista, quindi, e poi udito.
Sulle somiglianze: una volta istituita una “grammatica sensoriale” delle varie sensazioni, si potrebbero tracciare similitudini e differenze.
@ Ivo: Non capivo la tua risposta… mi sono riletto il mio intervento e dopo un paio di giri ci sono arrivato… ho perso un punto interrogativo… la mia tra l’altro era una domanda retorica, e la risposta implicita era NO! Ovvero non è secondo me sostenibile un bilanciamento sulla definizione della percezione sensoriale. La mia risposta è però comunque diversa dalla tua almeno in un punto: il verso, non essendo un finalista non posso condividere in toto la tua definizione, a meno che il tuo linguaggio non sia di tipo intenzionale e figurativo…
Tra gli altri punti che non sottoscrivo, ma sono strettamente legati al primo, c’è quello legato al fatto che sia l’ambiente a scegliere altrimenti lo sviluppo sarebbe lo stesso per tutti (ed ad esempio tutti gli animali della savana avrebbero il collo delle giraffe).
Condivido (per quello che poi possa significare) la seconda parte della tua risposta… il problema è questa grammatica che ancora non possiedo ma che potrebbe in qualche modo cercare di riunificare il tutto. Tieni presente che le teorie scientifiche dominanti, almeno per quanto mi risulta, sostengono ad esempio che non si “producano” pensieri concettuali ma direttamente in linguaggio naturale (Italiano, Inglese, dialetto, ecc… con differenze di potenza legate al vocabolario posseduto, ovvero non riusciamo a pensare in modo profondo in una lingua ove abbiamo poche parole), e la differenza secondo me è alquanto affine se distinguiamo frequenze acustiche e visive in modo diverso abbiamo diversa capacità di “goderne”…
Un sorriso
P.S. non ho ancora avuto il tempo di rileggermi un po’ di bibliografia in oggetto e vado assolutamente a braccio…
@il più Cattivo: Neppure io sono un finalista! Il problema è che bandire completamente il linguaggio finalistico è maledettamente difficile. Persino Dawkins vi ricorre, nei suoi libri.
Tutto sta nel non lasciarsi incantare dalle sirene del linguaggio…
Ho avuto l’onore di discutere brevemente con D.Hofstadter (quando ci ripenso ho ancora accelerazioni delle pulsazioni cardiache) ed anche lui sostiene (o perlomeno è quanto ho compreso) che riguardo al linguaggio intenzionale ci sia questa difficoltà, ma conveniva che sia comunque un mezzo per condividere un linguaggio già presente mentre mi sembrava meno bendisposto sull’ipotesi di giustificarlo come segnalazione che in fondo l’unico modo di interpretare il finalismo è appunto quello intenzionale.
@il più Cattivo:
Ne devo dedurre che esiste un finalismo non intenzionale?
@ Ivo: Forse non sono riuscito ad esprimermi correttamente. Mi sembra però che tu stia cercando di prendermi in giro. L’interpretazione di una visione del mondo è di per se stessa una strategia intenzionale (c’è un koan in G.E.B. che riporta più o meno che il modo corretto di trattare un vaso senza menzionarlo sia dargli un calcio). Ti stimo troppo per approfondire la risposta, rischiando di farla sembrare una lezione.
Un Sorriso
@il più Cattivo: nessuna burla, solo un po’ di curiosità su cosa intendevi (adesso che l’ho capito, mi ritraggo impaurito, che l’argomento è spaventevolmente vasto).
@Ivo: benone… anche se un po’ di burla non fa mai male…
Concordo che l’argomento non è roba da poco, ma se riuscissimo a fornire anche soltanto un piccolo contributo potrebbe essere qualcosa che mi darebbe una sensazione di orgoglio enorme.
Un Sorriso