A volte può accadere di non avere nulla da dire, ma di dover necessariamente dire qualcosa. Si apre allora la fiera della banalità: commenti sulle avversità atmosferiche (fa sempre o troppo caldo o troppo freddo, ci sono sempre o piogge torrenziali con conseguenti allagamenti oppure una interminabile siccità), analisi sulla disastrosa situazione politica (che è sempre disastrosa, a prescindere dall’orientamento politico), considerazioni sul degrado della società (che ovviamente non è più come una volta), e così via.
Mero esercizio ginnico della lingua, chiacchiera che rimane a spumeggiare stancamente sulla superficie del significato, brusio il cui unico scopo è evitare il peso del silenzio.
Quando viene nominata la banalità, è a questo estenuante chiacchiericcio che si pensa.
Eppure c’è dell’altro: la banalità non è solo un vuoto riempitivo. In quanto pensiero dell’ovvio, ha un ruolo importantissimo.
L’ovvio, il banale, è ciò che sempre abbiamo sotto gli occhi, è lo sfondo sul quale si muovono le figure principali, è il basso continuo della melodia della vita.
Nel banale sono racchiusi i piccoli segreti del nostro agire, e fare del banale il proprio oggetto di discussione significa gettare un nuovo sguardo verso il mondo, e forse arrivare a capirlo meglio.
L’ovvio è una straordinaria via di accesso al mondo e agli altri. Bisogna soltanto avere il coraggio di interrogarsi veramente sull’ovvio, senza fermarsi alla superficie del problema. E soprattutto bisogna avere il coraggio di rinunciare alla inutile ed estenuante ricerca dell’originalità: l’importante non è dire qualcosa di nuovo, ma di intelligente.