Il professo Franco Castelli di Milano scrive una lettera ad Avvenire (scovata grazie alle ultimissime dell’UAAR):
Direttore carissimo,
sono un diversamente abile con invalidità del 100%, ho vissuto la mia condizione sforzandomi di fare, con le diverse abilità disponibili e nel modo a me possibile, quello che fanno i normodotati. Sono diventato papà e docente universitario di ruolo. Ho lavorato sette ore e mezzo al giorno per i giovani laureandi fino al termine dei settantuno anni. Che cosa prevede la 194 per un embrione nelle mie condizioni, cioè con previsione d’invalidità del 100%?
I recenti gravissimi fatti di cronaca hanno riaperto in me una ferita sanguinante dall’entrata in vigore della 194. Per me è stato come se mi avessero tolto la cittadinanza italiana. La 194 prevede l’aborto terapeutico e se si prospetta la nascita di un figlio con invalidità del 100% di fatto lo si elimina. Quindi l’Italia non accetta come proprio cittadino un diversamente abile al 100% come me.
La prima reazione è di incredulità: la legge prevede l’aborto come possibilità, non come obbligo. Nessuno è obbligato a interrompere una gravidanza, e pertanto il professor Castelli non dovrebbe rivolgersi all’Italia intera, ma ai propri genitori.
Credo tuttavia che il senso della lettera sia un altro. Castelli ha scritto «se si prospetta la nascita di un figlio con invalidità del 100% di fatto lo si elimina». Di fatto: le preoccupazioni di Castelli sembrano andare aldilà della legge. Anche se non esiste un obbligo formale, può esistere un obbligo morale o sociale, dovuto alla disapprovazione generale, e i vincoli di questo obbligo possono essere ben più rigidi di quelli legali.
Questo è un serio problema per tutte le teorie etiche che si basano sulla libertà del soggetto: l’autodeterminazione del soggetto non coincide con la semplice assenza di vincoli legali, ma prevede anche l’assenza di vincoli sociali e, soprattutto, una buona conoscenza, da parte del soggetto, delle implicazioni della propria scelta.
Non sembra esserci una particolare disapprovazione generale verso chi decide di non interrompere una gravidanza; lo stesso non si può purtroppo dire per chi, invece, decide il contrario, ma molto, ovviamente, dipende dal contesto nel quale ci si trova.
Quanto alla buona conoscenza delle implicazioni, la situazione appare tutt’altro che rosea. E la lettera del professor Castelli, così come è stata pubblicata da Avvenire, non sembra proprio aiutare le persone a raggiungere un giudizio sereno e obiettivo dei fatti.
Premetto di essere a favore della 194.
Sebbene nella lettera non sia espressa chiaramente, la questione secondo me ricade sempre nel solito problema: i diritti dell’embrione (o del feto in questo caso), rispetto ai diritti della madre.
In particolare: l’embrione/feto ha personalita’ giuridica? Il diritto di “vita” dell’embrione viene prima o dopo del diritto della madre a decidere se partorire o no un figlio menomato?
Finche’ non si risolveranno questi problemi, difficilmente si fara’ chiarezza. E lettere come quella del professore non faranno altro che alzare del polverone.
Il professore sostiene che il suo diritto alla vita viene prima del diritto della madre alla decisione se crescere e vivere con un figlio menomato.
La 194 e’ un tentativo, forse non eccelso, di venire incontro ai due contrastanti diritti. Forse un po di buon senso e una discussione pacata potrebbero portare un po di serenita’ nella discussione, ma non sono questi i tempi adatti a discussioni pacate.
È difficile capire quale sia la questione principale della lettera.
Io ho ignorato il discorso sui diritti dell’embrione, sia perché su questo tema mi sono già espresso, e in genere non mi piace ripetermi, sia perché credo che “diritti dell’embrione” sia una espressione priva di senso, e sul non-senso non si può discutere sensatamente 😉
Ho quindi cercato, forse andando oltre l’intento dell’autore, una altra questione, che spero di avere affrontato con tutta la calma e la razionalità che questi temi meritano.
Adesso capisco cosa intendi dire.
A mio parere, il termine “di fatto” usato da Castelli nasconde l’assunzione che, lasciato libero, l’uomo (in questo caso la donna) naturalmente si lasci andare alle peggiori nefandezze. Ecco quindi la necessità di evitare la tentazione per “salvare” i “diritti” del futuro nascituro.
I cattolici moderni sembra prediligano una robusta “recisione legislativa” alla libertà dell’individuo, che eviti a noi poveri peccatori di peccare più del dovuto. Come direbbe Malvino, il pastore non si fida del suo gregge!
Sì, il punto è decisamente quello: gli individui sono immaturi, non sanno cosa è meglio per loro e quindi è giusto guidarli (sarei disposto a sottoscrivere questa affermazione sostituendo “consigliarli” a “guidarli”).
Non credo che la lettera intendesse alludere a una “immoralità” al di là della legge.
La chiave mi pare invece una confusione tra tutela giuridica e cittadinanza.
La legge sull’aborto, come dovrebbe essere noto, non prevede alcun diritto all’aborto, ma si limita a render effettivo un diritto alla salute della madre e lo media con gli interessi del nascituro. C’è, implicitamente, un riconoscimento di questo.
Non c’è però nulla di simile all’essere cittadino.
Ora, se le due cose vengono confuse e si assume che l’aborto comporti un sminuimento del nascituro, la lettera assume un senso preciso.
Un cittadino che POSSA esser radicalmente privato dei diritti NECESSARIAMENTE non è un cittadino nel senso che diamo comunemente al termine.
La cittadinanza è appunto una tutela da decisioni arbitrarie, dunque basate sul possibile…
Questa confusione tra tutela giuridica e cittadinanza è effettivamente un altro aspetto della lettera al quale non avevo pensato…
“gli individui sono immaturi, non sanno cosa è meglio per loro e quindi è giusto guidarli”
già, ma il paradosso è che a prendersi “l’onere” di guidarli sono altri individui, che si richiamano a entità superiori, ma che pur sempre sono normali individui, soggetti a sbagli e ripensamenti (come la storia ha dimostrato, nonostante dogmi di infallibilità)
raser: Si suppone che, infallibilità a parte, essendo professionisti della materia se la cavino meglio dei principianti (un discorso simile, del resto, vale anche per la politica).