Ieri sera ho seguito un interessante incontro alla Biblioteca cantonale di Bellinzona dedicato a tecnologia e giustizia con Roy Garré, storico del diritto e giudice del tribunale penale federale, ed Edy Salmina, avvocato ed ex giornalista oltre che membro dell’Autorità indipendente di ricorso in materia radiotelevisiva.
Mettere insieme i concetti di giustizia e tecnologia di solito significa parlare di come punire illeciti che avvengono online, di come i social media sfuggano alle legislazioni nazionali o della tecnologia come strumento di oppressione. Il tema qui però è stato affrontato da un altro punto di vista, iniziando già dal titolo che da una parte cita l’infosfera, concetto che essendo legato a quello di informazione non coincide con il mondo digitale ma include anche le informazioni analogiche, dall’altra fa riferimento all’indipendenza della giustizia nella infosfera e non dalla infosfera come, abituati a una retorica un po’ luddista che vede nella tecnologia un nemico, ci si potrebbe aspettare. Insomma, l’infosfera è l’ambiente in cui (anche) la giustizia si muove, anche producendo nuove informazioni, non un potere dal quale proteggersi.
Riassumendo l’intervento di Garré: i tribunali devono essere buoni cittadini dell’infosfera, perché certo i processi sono sempre stati pubblici – i processi segreti sono una “patologia della giustizia” tipica di regimi autoritari –, ma oggi il pubblico potenziale coincide con l’umanità (e, aggiungo io, anche con agenti non umani come algoritmi) e questo impone qualche cautela a livello di comunicazione.
E il tema dell’indipendenza? Garré ha ricordato il concetto di “recinto processuale“: in breve, il pubblico osserva ma non prende parte al procedimento. Ed è importante che questo recinto venga mantenuto anche con le nuove tecnologie di comunicazione. Insomma: i tribunali dovrebbero comunicare meglio sui social media e non lasciarsi influenzare da quel che scrivono le persone – il che è condivisibile, anche se ha l’effetto di mettere i giudici in una torre d’avorio e prevedere una comunicazione unidirezionale, dall’alto al basso.
Garré è un giudice e si è concentrato sul processo; Salmina è un avvocato e ha guardato anche alla fase precedente, l’istruttoria, che di solito non è pubblica e questo non per tramare chissà cosa ma per tutelare le indagini e l’indagato. Con i mass media e i social media questa fase è sempre più pubblica e non parliamo di un momento trascurabile: la maggioranza dei procedimenti penali – Salmina parlava del contesto svizzero – si esaurisce in questa fase (non l’ha specificato, ma immagino perché l’indagine viene abbandonata o si arriva a un decreto d’accusa che non viene contestato). Come deve sentirsi un giudice o un magistrato di fronte a un imputato già condannato dall’opinione pubblica in base ai suoi umori?
E poi in Svizzera è già capitato che leggi penali venissero proposte e approvate in votazione popolare, e i procuratori sono eletti dal parlamento: insomma, non mancano le occasioni in cui chi fa giustizia viene influenzato da quel che si muove nell’infosfera. La raccomandazione di Salmina è una riformulazione dell’essere buoni cittadini dell’infosfera fatta da Garré: passare dal culto dell’indipendenza alla cultura dell’indipendenza, prevedendo anche un sistema di controllo (ma mi viene il mal di testa solo a pensare come poterlo implementare).
Dell’incontro ho apprezzato molto il modo in cui è stato inquadrato il fenomeno (chiamarlo problema è forse esagerato, anche se gli aspetti critici non mancano); su come affrontarlo abbiamo le solite raccomandazioni a essere virtuosi (termine un po’ desueto ma che preferisco a “responsabili”) che se da una parte lasciano un po’ tiepidi dall’altro sono, realisticamente, le uniche cose che hanno qualche possibilità di funzionare.