Può essere utile prendere a calci i robot?

Un biglietto per Tranai è un delizioso racconto di fantascienza di Robert Sheckley con un interessante spunto sul rapporto tra umanità e tecnologia.

Il racconto è del 1955 e rientra nella “social science fiction”, dove la tecnologia è più che altro uno strumento per scoprire la natura umana. Abbiamo ovviamente navi spaziali e viaggi interstellari, ma ci servono semplicemente per raggiungere il pianeta Tranai. In un’altra epoca il protagonista del racconto, Goodman, sarebbe semplicemente naufragato su un’isola sconosciuta. Ma nel 1955 l’età delle esplorazioni era finita da un pezzo e la nuova frontiera era quella spaziale. Ecco quindi Goodman arrivare su Tranai, una sorta di paradiso (extra)terrestre in cui tutti i problemi dell’umanità non esistono. Il che è vero, ma con soluzioni decisamente creative che Goodman fatica ad accettare. Non dico altro per non rovinare il piacere della lettura, anche se secondo fantascienza.com l’ultima traduzione italiana è in un’antologia del 1989 temo difficile da recuperare.

Una delle stranezze di Tranai riguarda i robot. Goodman è abituato ai robot terrestri veloci, precisi e robusti. Quelli di Tranai sono invece lenti e fragili ma non per limiti tecnologici: sono proprio costruiti per essere così. “Mi lasci capire bene. Si tratta di rallentare di proposito questi robot, in modo che diano sui nervi ai clienti e questi li prendano a pedate?” chiede al titolare della fabbrica di robot per cui lavora. E quest’ultimo, gentilmente, gli spiega tutto. Alla base c’è il profondo e tenace disprezzo per le macchine che “gli psicologi la chiamano reazione istintiva della vita contro la pseudo-vita”. Ecco, con qualche taglio, il suo lungo discorso:

Ogni macchina è fonte di irritazione. Meglio opera la macchina e più forte è l’irritazione. Così, per estensione, una macchina che funzioni perfettamente è una perfetta generatrice di frustrazione, perdita di stima in se stessi, risentimento indiretto e schizofrenia.

Ma le macchine sono necessarie a un’economia avanzata. La miglior soluzione, dal punto di vista umano, è quindi di avere delle macchine che funzionino male.

Se le macchine funzionano bene e non si possono distruggere a pedate, quella frustrazione andrà sfogata da qualche parte:

Sulla Terra, i vostri meccanismi funzionano quasi all’optimum, provocando complessi di inferiorità nei loro operatori. Ma disgraziatamente avete dei tabù tribali, che vi impediscono di distruggerli. Risultato? Ansietà generalizzata in presenza della sacrosanta macchina, e ricerca di un oggetto di sfogo, generalmente la moglie, o un amico. Una ben triste situazione. Oh, è efficiente, suppongo, in termini di produzione robot-ora, ma assolutamente inefficiente in termini di benessere e salute a lunga scadenza.

L’uomo è un animale essenzialmente dominato dall’ansia, e perciò bisognoso di sfogo. Qui su Tranai noi indirizziamo lo sfogo verso i robot, sia per l’ansia che per un mucchio di altre frustrazioni. Un uomo ne ha abbastanza? Blam! Con una pedata sbudella il suo robot. Ecco un’immediata e terapeutica scarica di sentimenti, con senso di superiorità sopra la macchina, generale allentamento di tensione, benefico afflusso di adrenalina nel sangue, notevole spinta all’industria, dal momento che la prima cosa che l’uomo fa dopo aver sfasciato il suo robot, è sempre di comprarne un altro. E che cosa ha fatto, dopo tutto? Non ha picchiato sua moglie, non s’è suicidato, non ha dichiarato guerra, non ha inventato una nuova arma e non s’è abbandonato a uno dei modi generalmente usati per sfogare la propria ansietà-aggressività. Ha semplicemente fracassato un robot di poco prezzo che può immediatamente sostituire.

È sempre interessante, con questi classici della fantascienza, guardare prima di tutto a quello che non c’è. Dal punto di vista psicologico è forse un bene, distruggere e ricomprare robot. Dal punto di vista economico mi pare uno spreco di risorse con un forte impatto ambientale, ma ci sta che Sheckley non se ne preoccupasse più di tanto negli anni Cinquanta.

Passiamo a quello che c’è, che è tanto. Esiste davvero questa “reazione istintiva della vita contro la pseudo-vita”? Tenderei a pensare che sia più questione di abitudine. Non quindi “qualsiasi aggeggio meccanico”, come spiega il produttore di robot, ma solo quelli percepiti come una novità – e una minaccia. Ai tempi di Sheckley i robot, oggi l’intelligenza artificiale, qualche secolo fa i telai meccanici.
È comunque vero che, quando la tecnologia non funziona come dovrebbe, ci arrabbiamo. È utile che questa rabbia venga sfogata sui robot, che alla fine sono cose, e non su altri esseri umani? Apparentemente sì: non abbiamo doveri verso i robot e non causiamo sofferenza. Del resto almeno su Tranai sono costruiti apposta per essere presi a calci.
Tuttavia le cose non sono così semplici se prendiamo in considerazione l’etica delle virtù. Avevo già accennato al problema anche se partendo da un altro punto di vista, quello del ringraziare le intelligenze artificiali. In pratica, più che i principi morali o le conseguenze delle azioni, conta come ci comportiamo. E dare sfogo alla rabbia prendendo a calci un robot non è un bel comportamento e mostra una sostanziale incapacità di controllare la rabbia. Certo, se l’alternativa è picchiare o uccidere una persona, dichiarare una guerra o inventare un’arma meglio fracassare dei robot. Ma sospetto che sia un falso dilemma e che anzi, avere dei robot progettati per irritarci e farci commettere atti di violenza (seppur senza vittime) sia una pessima idea.

La irresistibile ascesa delle emozioni nei discorsi pubblici

Quando discutiamo di qualcosa usiamo la ragione o le emozioni? Secondo uno studio pubblicato su PNAS, le parole legate alla razionalità, dopo una crescita durata oltre un secolo, sono in rapido declino.

Ho scoperto questa ricerca grazie a un articolo scritto dal filosofo Massimo Pigliucci sullo Skeptical Inquirer che riassume brevemente metodi e risultati e analizza le possibili interpretazioni.
Riassumendo: gli autori – Marten Scheffer, Ingrid van de Leemput, Els Weinans e Johan Bollen – hanno analizzato a partire dal 1850 la frequenza relativa di termini legate alla razionalità e all’emotività nei testi presenti in Google Books Ngram Viewer, guardando anche all’utilizzo della prima e della terza persona. Insomma, la differenza tra un “io credo che…” e un “si può dimostrare che…”.
Per essere sicuri della solidità del risultato hanno rifatto l’analisi sui libri di saggistica e su quelli di narrativa, sugli articoli del New York Times e in varie lingue (tra cui l’italiano). Il fatto che abbiano trovato andamenti simili mostra la bontà del loro lavoro, anche se non si possono escludere del tutto errori dovuti a distorsioni del campione (magari un tempo si pubblicavano solo un certo tipo di libri, o comunque quelli rimasti oggi nelle biblioteche sono una selezione non rappresentativa) o alle parole cercate (magari ci sono espressioni un tempo diffuse che non sono state considerate).

I su e giù dei discorsi fattuali

Come variano, quindi, razionalità ed emotività nei testi argomentativi e nella narrativa? Fino agli anni Settanta del Novecento le parole legate ai sentimenti sono in costante calo mentre quelle legate a prove fattuali (gli autori parlano di “fact-based argumentation”) crescono. A partire dal 1980 questa tendenza si ribalta con una crescita di discorsi non basati sui fatti che diventa molto marcata a partire dal 2007.

Perché tutto questo? Secondo gli autori della ricerca, la crescita che si vede fino agli anni Settanta potrebbe essere legata una visione razionalistica e naturalistica della realtà legata ai progressi scientifici e tecnici; il calo degli anni Ottanta e Novanta sarebbe una sorta di reazione alle disuguaglianze di un sistema sociale ed economico che, almeno a livello retorico, si basa sulla razionalità; infine, la rapida crescita dell’ultimo decennio sarebbe legata ai social media.
Si tratta ovviamente di ipotesi e Pigliucci, nel suo articolo, osserva giustamente che per quanto ragionevoli siano, possiamo facilmente immaginare altre spiegazioni. A me ad esempio viene in mente la globalizzazione che ha portato a una maggior diffusione di tradizioni non occidentali.

Comunicare meglio

C’è tuttavia un aspetto che non mi è chiaro. Sia gli autori dello studio, sia Pigliucci sembrano convinti che quei numeri mostrino un declino del discorso razionale. Potrebbe invece essere dovuto, almeno in parte, a una maggiore attenzione alle emozioni. Il che non vuol dire affidare alle emozioni giudizi che sarebbe meglio tenere razionali, ma rendersi conto che le emozioni ci sono e che vanno conosciute. E utilizzate per una comunicazione che, di nuovo senza escludere il giudizio razionale, riesca essere più efficace. Per convincere le persone, argomentava Aristotele, non basta il logos (il discorso razionale) ma servono anche pathos (le emozioni) ed ethos (il comportamento) che sospetto facciano uso delle parole che lo studio ha indicato come “non fattuali” e legate all’intuizione. Ma è irrazionale raccontare il cambiamento climatico, spiegandone le cause e gli effetti, partendo da un’esperienza personale?

È un’ipotesi che aggiungo a quelle già avanzate: forse quel declino di parole razionali e quella ascesa di parole emozionali sono anche il segno che stiamo imparando a conoscerci, e a comunicare, meglio.

Lo stile del disgusto

Rabbia, disgusto, paura… è normale che atti coma la pedofilia suscitino emozioni forti.
È, o almeno dovrebbe essere, un po’ meno normale lasciarsi trasportare a queste emozioni, augurando le peggio cose a chi è anche solo sospettato di questi atti e auspicando la reintroduzione di torture e pena di morte. Ma si sa che capita, soprattutto sui social media, per cui non mi hanno stupito i vari “bestia!”, “buttare via la chiave” e “castrazione!!!” a corredo della notizia di un processo per atti sessuali con fanciulli (questo il reato secondo il codice penale svizzero).

Quello che mi ha stupito è la persona che ha deciso di manifestare il proprio disgusto con una gif animata presa da un reality show:

Le lacrime e il gender

Antonello_da_Messina_005Le lacrime di Federica Mogherini continuano a far discutere, e francamente faccio un po’ fatica a capire che cosa ci sia di sorprendente in una persona – e scrivo apposta persona, lasciando indeterminato il sesso – che, pur avendo un ruolo di responsabilità, manifesta le proprie emozioni di fronte a un fatto grave come la morte violenta di decine di persone.1

Qualcuno ha fatto notare che anche gli uomini piangono: l’esempio temporalmente più vicino è il presidente degli USA Obama, qualche anno indietro c’è un altro presidente, l’italiano Pertini,2 e ancora più indietro Ulisse.
Credo tuttavia che ci sia una radicale differenza tra gli esempi moderni e quello antico.
I primi, infatti, vengono infatti presentati come “uomini che non si vergognano del proprio lato femminile”, di fatto rinforzando l’idea che forse i maschi piangono, ma la mascolinità no.
Completamente diverse le lacrime di Ulisse le quali – per riprendere Itaca, bellissimo saggio di Eva Cantarella – “rientrano perfettamente nelle manifestazioni di un carattere violento, collerico, sregolato nelle manifestazioni di qualsiasi emozione”. Il pianto diventa debolezza femminile molto dopo Omero, ed è interessante che Cantarella citi uno dei testi principali della filosofia: il Fedone, con Socrate che beve la cicuta e rimprovera i piagnucolanti discepoli con un “non fate le femminucce”.3
Ecco, a me piace sperare che le lacrime dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza rappresentino un ritorno a prima di Socrate, ovviamente non per la sregolatezza degli eroi omerici, ma per l’abbandono di quell’idea da psicoanalisi d’accatto che le emozioni appartengano al “femminile” e la razionalità al “maschile”.

  1. Al massimo potrei chiedermi perché si piange per le bombe in Belgio e non per quelle in Turchia o in Siria, ma mi rendo conto che è un problema quasi solo mio. []
  2. Mi dicono durante l’incidente di Vermicino e probabilmente anche in altre occasioni. []
  3. No, ovviamente non dice proprio così, ma il senso è quello. []

Tu chiamale se vuoi emozioni

Il Corriere della Sera online – sulla scia di altri siti d’informazione – ha introdotto una sorta di “valutazione emozionale” delle notizie: per ogni articolo gli utenti possono stabilire se sono indignati, tristi, preoccupati, divertiti o soddisfatti. Continua a leggere “Tu chiamale se vuoi emozioni”

Sventurata la terra che ha bisogno di emozioni

«La vera politica invece è come il vero amore: spesso si nasconde». Le parole sono importanti. La vera politica, il vero amore, perché nella vita c’è il vero e c’è il falso, l’autentico e il sofisticato, il puro è l’impuro. La vera politica e il vero amore si nascondono, trovarle richiede impegno, ma il valore della ricompensa vale l’impresa.

Continua a leggere “Sventurata la terra che ha bisogno di emozioni”

Umanità ed emozioni

Data stellare 4307.1, anno 2268 (nella realtà, gennaio 1968): il dottor McCoy discute con il vulcaniano Spock della distruzione di una nave stellare con a bordo quattrocento persone.

Data stellare , 43198.7, anno 2366 (nella realtà, ottobre 1989): il primo ufficiale Riker discute con l’androide Data della morte del tenente Marla Aster.

In entrambi i casi, a non capire l’umanità – o a capirla meglio di quanto un essere umano possa fare – è un qualcuno privo di sentimenti: il vulcaniano Spock, che ha rifiutato le emozioni, e l’androide Data, incapace di provare emozioni a causa dei limiti del suo cervello positronico.