Avere o essere? di Erich Fromm è uno di quei libri che da adolescente consideri fondamentale, crescendo trovi scontato e stucchevole per poi parzialmente rivalutarlo. Col rischio di risultare, a nostra volta, un po’ scontati e stucchevoli.
Semplificando brutalmente, vi sono due modi di vivere: uno basato sull’avere e uno sull’essere. Nel primo il valore è determinato da quel che si possiede; nel secondo da quelle che potremmo definire “qualità interiori” e che include la crescita personale, l’amore e l’empatia.
Credo che potremmo e forse dovremmo aggiungere una terza modalità di condurre e valutare la propria vita: il fare.
Intendiamoci: l’identità, il modo in cui ci vediamo e valutiamo, è un concetto vago e complesso. Il che è stato, almeno per me, il motivo che mi ha portato a ignorare le riflessioni di Fromm. Ma prendiamoli come modelli, delle astrazioni che non incontreremo mai che che ci aiutano a comprendere noi stessi e gli altri.
Il primo di questi modelli è quello di chi guarda a sé stesso, al proprio carattere e comportamento. Il secondo è di chi guarda a quello che possiede, al controllo che può avere sugli altri. Il terzo, quello che propongo di aggiungere, punta tutto su quello che si fa. O che si tenta di fare, perché non è importante il risultato, non è importante l’effettiva utilità di quello che si fa: quello che conta è il fatto di fare qualcosa anche se inutile, anche se dispersivo, anche se controproducente. Conseguentemente, il non fare nulla – anche se magari è l’unica cosa sensata da fare, visto che non tutto è sotto il nostro controllo – è una cosa negativa o comunque pone in una situazione di inferiorità rispetto a chi fa qualcosa.
Si tratta, lo ribadisco, di modelli astratti. Ma se c’è un campo in cui questo “modello del fare” trova incarnazione, è la politica. Un politico deve fare qualcosa, anche se quel qualcosa è inutile o addirittura dannoso; anche se alla fine è come se non avesse fatto nulla (pensiamo a una legge che risulta inapplicabile o viene dichiarata nulla), almeno ha fatto qualcosa.
Immagino sia una reazione all’accusa, rivolta periodicamente a chi fa politica, di esser bravi a ingannare il prossimo – cioè gli elettori – con le parole. Ma non è un grande progresso e anzi forse è un regresso, se quello che conta è il fatto di fare qualcosa, non il come lo si fa e gli effetti complessivi di quello che si è fatto.
La conclusione del libro di Fromm è che, tutto sommato, è meglio essere che avere.
Non so se mi sento di concludere che è meglio essere che fare. Il carattere e il temperamento sono due caratteristiche poco considerate, in politica – e forse dovremmo valutarle meglio, nello scegliere chi votare –, ma non ha molto senso demonizzare quello che una persona fa (e a pensarci bene neanche quello che una persona possiede).