Per gli appassionati di storia e filosofia del diritto, la figura di Antigone è un classico: colei che sfida le leggi del tiranno Creonte in nome delle leggi degli dei che impongono di dare degna sepoltura ai propri cari. La vicenda di Antigone è – a seconda delle interpretazioni – simbolo dei limiti etici della legge, della superiorità del diritto naturale sul diritto positivo, dei diritti universali inalienabili, della lotta alla tirannia eccetera. A lei si rifà l’Associazione Antigone, fondata tra gli altri da Massimo Cacciari, Luigi Ferrajoli, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda per tutelare i diritti delle persone incarcerate.
Eppure Antigone non si appella al diritto naturale come lo intendiamo noi, per seppellire il fratello Polinice. Era una cosa che avevo già sentito ma che riscopro con interessanti dettagli grazie a Luca Simonetti: le “leggi non scritte” erano semplicemente le norme tradizionali riservate alle famiglie nobili.
Ma – e questa è la cosa interessante, che ci conduce a riconsiderare radicalmente il senso della protesta di Antigone – le norme non scritte, tradizionali, non ponevano un dovere generale di seppellire tutti i morti, anche se si fossero macchiati delle colpe più gravi: al contrario, prevedevano questo dovere solo nei confronti dei nobili. Il divieto di sepoltura andava benissimo, invece, se disposto a carico di cittadini non nobili, oppure di schiavi.
Non era la rivendicazione di un diritto universale, bensì di un privilegio.
Un classico, per riprendere una fin troppo citata frase di Calvino, è quel testo che continua a dirci qualcosa: la tragedia di Sofocle ha detto un sacco di cose, nel corso della storia, ed è interessante che ora ci dica che, dietro gli immutabili diritti naturali continuamente invocati per giustificare di tutto, c’è qualcosa di molto umano – il che non vuol dire che siano da disprezzare, ma solo da considerare per quello che sono, creazioni umane.