I valori della pandemia

Immagino sia capitato a molti: incontrare una persona e salutarla senza stringerle la mano.
E mi sono messo a pensare a molte cose che – almeno in alcuni contesti, almeno da alcuni – erano considerate “valori”, insomma cose giuste da fare, meritevoli di approvazione sociale, ma che adesso, con la pandemia, siamo invitati a non fare più, almeno temporaneamente.

Nell’elenco c’è un po’ di tutto: cose che sono forse positive di per sé, cose che lo sono solo in quanto mezzi per un fine positivo, cose che a ben pensarci non sono positive ma solo usuali.

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Parole contro la paura

Lo ammetto: ho un pregiudizio contro gli instant book. Ma ho una grande stima per Vera Gheno: ho adorato il suo Potere alle parole, trovato delizioso Prima l’italiano, devo ancora superare il trauma di aver prestato senza ritorno Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) e mi vergogno di aver solo sfogliato Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole.

Ho quindi subito preso Parole contro la paura e non me ne sono affatto pentito.
L’operazione di partenza può lasciare perplessi: chiedere ai propri contatti di Facebook le prime tre parole che vengono in mente pensando alla pandemia. Può lasciare perplessi perché, appunto, cosa te ne fai di un elenco di parole? Vera Gheno ci fa tutto: partendo dal presupposto che «i protagonisti della storia di una lingua, di ogni lingua, sono i suoi parlanti» e che «ogni parola non è mai “solo” una parola, ma una specie di gancio verso un intero mondo di significati», dalla a di attesa alla z di zombie il libro ci porta a esplorare questi mondi, ben più vasti di quello in cui siamo giocoforza confinati in questi giorni.

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Due o tre cose sull’app di tracciamento contatti

Avvertenza
Se siete finiti qui cercando informazioni tecniche sul funzionamento dell’app di tracciamento contatti che dovrebbe contrastare la diffusione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2: mi spiace, ma siete nel posto sbagliato. Però vi segnalo due cose che ho trovato interessanti: la prima è una spiegazione a fumetti (di uno dei progetti in fase di sviluppo), il secondo è un articolo pubblicato dalla Electronic Frontier Foundation (qui in traduzione italiana).
Che cosa troverete qui di seguito? Semplicemente qualche riflessione generale e forse un po’ filosofica sulla famosa e un po’ famigerata app.

In breve: più che la privacy o la sicurezza, mi preoccupa che l’app venga percepita (dalle autorità e dalle persone) come la soluzione, invece di uno degli strumenti da usare. E molto si giocherà sugli incentivi (o le sanzioni).

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La fine della globalizzazione e dell’urbanizzazione

Ho fatto una lunga chiacchierata con una persona convinta che il mondo non sarà più lo stesso, dopo l’epidemia.
Non perché – come anch’io mi auguro accada – assumeremo come individui e come società abitudini più igieniche; penso al lavarsi spesso e approfonditamente le mani, a non andare al lavoro in caso di sintomi anche lievi, a non considerare disdicevole non stringere la mano alle persone (cose utili anche per contenere la “banale” influenza). E neanche perché, conclusa l’emergenza sanitaria, ci sarà un tessuto economico da ricostruire.

Più che nuove abitudini, secondo il mio interlocutore, avremo nuovi abiti – nel senso di inclinazioni, attitudini, indoli. Mettendo in crisi i due pilastri su cui si negli ultimi cinquant’anni si è retta l’evoluzione sociale: la globalizzazione e l’urbanizzazione. Non si tratta di utopistici ritorni al passato, ma di pratiche e stili di vista molto diversi da quelli attuali: una minore mobilità, un’economia più locale e legata al territorio, la ricerca di spazi e stili di vita meno affollati.

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Del falso bilanciamento tra salute ed economia

Si discute sempre più di allentare le misure di contenimento della pandemia, di ripresa e riapertura. Discussioni che per molti sono sul giusto equilibrio tra salute ed economia.
Non so voi, ma io mi immagino una bilancia, con “la salute” da una parte e “l’economia” dall’altra, oppure una leva, un’altalena basculante del parco giochi.

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Abbiamo raggiunto il picco – o il fondo?

Sempre a proposito di nuovo coronavirus e metafore, c’è un particolare che mi colpisce – e questo, ne sono sicuro, interesserà solo me e qualche altro maniaco del tema. Intendo la questione del picco, della necessità di abbassare la curva (dei contagi/ricoveri) eccetera.

Si tratta di un esempio di quelle che Lakoff e Johnson chiamano “metafore di orientamento”:

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Il lungo viaggio del nuovo coronavirus (ovvero smettiamola di dire che siamo in guerra)

A inizio marzo avevo scritto di “non [essere] particolarmente preoccupato”; penso sia il caso di ammettere di essere stato troppo ottimista: le conseguenze di questa epidemia le avvertiremo molto a lungo – per sempre, chi avrà perso una persona cara.

Inizio con questa ammissione perché non voglio che quanto segue venga preso come una minimizzazione della situazione: è e sarà dura, e ci vorrà la cooperazione di tutti. Ma non siamo in guerra con il virus SARS-CoV-2 e penso sia il caso di ridurre i riferimenti bellici, nei discorsi che facciamo sull’epidemia – discorsi nei quali invece le medicine sono armi, i medici truppe, gli ospedali fronti e così via.
Ripeto: non lo dico perché credo vada tutto bene. E neanche perché non veda punti di contatto con una guerra: i morti e i ricoverati, la sospensione della vita di tutti i giorni, i danni sociali ed economici. Ma le metafore sono infide, sfuggono di mano: non si limitano ad alcuni punti di contatto, ma si espandono e portano con sé tutto l’immaginario collettivo – in questo caso della guerra.

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Piccolo promemoria su chi fidarsi in questa emergenza sanitaria

Mascherine, mascherine fai da te, disinfettanti, distanze sociali, antinfiammatori, vitamina C, aglio… e sono solo alcune delle notizie che circolano in questi giorni su come difendersi dal virus SARS-CoV-2, il nuovo coronavirus.

Ora: sono un filosofo di formazione e un giornalista di professione. Il che vuol dire non fidatevi di me su questioni medico-sanitarie, perché non sono esperto di queste cose e mi limito a ripetere cose che ho sentito da fonti – queste sì – che ritengo affidabili.

Ecco: di chi avere fiducia? Su questo tema un po’ di competenza l’ho, quindi posso dare qualche consiglio secondo me sensato. Insomma: non so valutare l’informazione “le mascherine servono solo se siete ammalati o se assistete un malato”, ma so valutare l’affidabilità di chi lo dice. Poi certo: anche le persone affidabili possono dire cose non vere (perché si sbagliano) e persone non affidabili possono dire cose non false (per caso) ma, appunto, non lo sappiamo, per cui dobbiamo basarci sulla fiducia.

Dunque, di chi fidarci?
Purtroppo è più un’arte che una scienza, ma ecco alcuni indizi, alcuni punti da tenere presenti.

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Coronavirus, spoiler della seconda stagione

Iniziamo da una doverosa premessa sull’autorevolezza di quanto segue:

Sono un filosofo prestato al giornalismo, non ho alcuna competenza specifica in ambito epidemiologico o medico.

Detto questo, non sono particolarmente preoccupato dall’epidemia di SARS-CoV19. Indubbiamente per chi perderà una persona cara questa malattia sarà certamente la fine del mondo – e sì, credo che dire “tranquilli muoiono solo quelli che hanno già un piede nella fossa” non sia una bella cosa – ma nel complesso dubito che l’epidemia in corso sarà l’apocalisse che alcuni temono. E questo, va detto, anche grazie alle misure di prevenzione.

Non resteranno solo macerie, dell’umanità. Ma ecco, appunto: che cosa resterà di questa epidemia? Che cosa ci avrà lasciato la paura per il coronavirus? Intravedo due possibili scenari.

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Coronavirus, secondo me un po’ razzisti lo siamo

“Non è razzismo, al massimo ignoranza”: questo, mi pare, l’esito dell’autoanalisi collettiva riguardo alcuni atteggiamenti discriminatori nei confronti di persone orientali.

Perché c’è di mezzo una malattia infettiva, il cui (unico?) focolaio è (al momento?) in Cina, per cui sarebbe normale prudenza evitare ristoranti con specialità asiatiche, stare alla larga da persone con gli occhi a mandorla, insultare un orientale che tossisce, diffondere inviti a non fare acquisti in alcuni negozi che vendono prodotti cinesi (quelli gestiti da cinesi), recandosi invece in altri negozi che vendono prodotti cinesi (quelli gestiti da italiani).

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