Sull’origine dell’Universo:
Thomas Mann amava asserire che l’origine è sempre una quinta del tempo. Il che è come dire: non c’è origine. Ogni volta che siamo di fronte all’origine, in realtà siamo di fronte all’originato, non all’origine. Non ha senso pensare un’origine «una» di cui si possa dire: questa è l’origine. Ecco, per l’intelligenza umana, un paradosso insostenibile.
Ogni volta che si parla di origine si opera quella che io chiamo la «retrocessione del testimone». Non si può parlare di altro modo. Non è infatti possibile alcun discorso sull’origine che non comporti la retrocessione del testimone. Prendendo un esempio dalla cosmologia odierna: si dice, per esempio, 10-40 secondi dall’origine dell’Universo, o dal Big Bang. Che cosa significa questa frase se non per esempio questo: se un osservatorio attuale, ad esempio quello di Harvard, fosse stato presenta alla 10-40 dal Big Bang, avrebbe osservato quello che noi diciamo che ipoteticamente sarebbe successo. Questo, però, senza qualificazioni, è privo di senso. Anzitutto, bisognerebbe chiarire qual è il privilegio di questo osservatore di oggi rispetto ad altri osservatori. Perché l’insieme delle pratiche, delle tecniche, delle teorie di un osservatorio odierno avrebbe un privilegio rispetto all’origine? Intendo proprio l’origine in quanto tale, non semplicemente l’origine come attuale problema scientifico. Come, rispetto all’origine in quanto tale (che è poi ciò di cui la scienza pretenderebbe di parlare), le pratiche attuali avrebbero un privilegi, per esempio rispetto alle osservazioni astronomiche dei Magi persiani? Questo non significa che io, come uomo del mio tempo, non sia ovviamente inclinato ad accogliere le opinioni della scienza contemporanea a preferenza di quelle dei Magi: però questo privilegio va argomentato e chiarito.
Carlo Sini, “Ha davvero senso parlare di origine dell’Universo?” in G. V. Coyne, G. Giorello, E. Sindoni (a cura di) La favola dell’universo, Casale Monferrato, Piemme, 1997