I social media nuocciono gravemente alla salute delle discussioni razionali

Il titolo ricalca gli avvisi che si trovavano sui pacchetti delle sigarette – da qualche anno mi pare che il burocratico “nuoce gravemente alla salute” sia stato sostituito da un più diretto “uccide” – ma non vorrei venisse frainteso.
Sul fatto che il fumo faccia male non ci sono praticamente dubbi, mentre le ricerche di cui parlo in questo articolo sono meno certe. In ogni caso non auspico interventi statali per proibire o ridurre l’utilizzo dei social, né mi sento di consigliare a tutti di tenersene alla larga.

Già che siamo in zona di avvisi: questo post riprende in parte quanto scritto nella mia newsletter settimanale, alla quale potete abbonarvi.

Più condividiamo meno pensiamo

Alla fine di ogni articolo ci sono una serie di pulsanti per condividerlo su vari social media. Ma forse dovrei toglierlo, visto che secondo una ricerca condividere un’informazione ci rende più creduloni. O, per dirla con le parole del titolo dell’articolo pubblicato su Science Advances, “il contesto dei social media interferisce con il riconoscimento della verità” (“The social media context interferes with truth discernment”).

Prima di vedere i contenuti dell’articolo, qualche avvertenza.
La ricerca è stata condotta sottoponendo ad alcuni soggetti il titolo di una notizia e chiedendo loro, in maniera casuale, se la consideravano attendibile e se l’avrebbero condivisa online. Insomma una situazione così:

Un contesto un po’ diversa dal modo in cui di solito troviamo delle notizie, ne valutiamo l’affidabilità e decidiamo se è il caso di condividerle. Insomma, nella “vita vera” l’effetto rilevato dai ricercatori potrebbe non esserci, o essere trascurabile. Ma intanto si è visto che le persone sono meno brave a distinguere le notizie vere da quelle false quando viene loro chiesto se sono interessate a condividere la notizia.

Perché tutto questo? I ricercatori hanno preso in considerazione due ipotesi. La prima è che abbiamo una quantità limitata di “energia mentale”. Se ne impieghiamo una parte per decidere se condividere la notizia, ne abbiamo meno a disposizione per valutarne criticamente il contenuto. Insomma, decidere se condividere o meno un contenuto ci distrae. La seconda ipotesi è che la decisione di condividere una notizia ci porti automaticamente a considerarla più attendile, visto che non ci piace l’idea di condividere notizia inaccurate.
I due modelli differiscono per il tipo di interferenza. Il modello dell’energia mentale (che i ricercatori definiscono “spillover”) prevede giudizi errati sia per le notizie vere che per quelle false. Il modello della consistenza, invece, prevede perlopiù notizie false scambiate per vere. Ebbene, i dati mostrerebbero che è il primo modello a essere corretto. In altre parole: basta prevedere la possibilità di condividere una notizia per abbassare lo spirito critico delle persone.

A caccia di indignazione

Quella appena riassunta non è l’unica ricerca sui social media di questi giorni. Un altro studio ha preso in considerazione i tweet sul “trophy hunting”. Qui c’è la ricerca, e qui il comunicato stampa.

La caccia ai trofei consiste in persone benestanti che pagano per poter cacciare animali protetti. Il tutto avviene legalmente e i soldi vengono usati per la protezione degli ecosistemi, per cui alla fine c’è un guadagno netto per la fauna selvatica. Hai fatto fuori un leone o un rinoceronte in via di estinzione, ma quel che hai speso permette di mantenere aperta la riserva naturale in cui possono vivere molti più esemplari. Ciononostante fatico a considerare chi pratica questo sport un “amico della natura”. E mi sento di concludere che uno che uccide esseri viventi perché sono trofei non è una bella persona.

Sul tema ne aveva scritto Sandel nel suo interessante saggio Quello che i soldi non possono comprare (del quale avevo scritto una recensione):

Se credete che sia moralmente riprovevole uccidere la fauna selvatica per sport, il mercato della caccia ai rinoceronti è un patto col diavolo, un tipo di estorsione morale. Potreste accettare i suoi effetti positivi sulla conservazione dei rinoceronti ma deplorare di fatto che questo risultato sia ottenuto soddisfacendo quelli che voi considerate piaceri perversi di ricchi cacciatori. Sarebbe come salvare dalla distruzione un’antica foresta di sequoie permettendo ai boscaioli di vendere a donatori benestanti il diritto di incidere le proprie iniziali su alcuni degli alberi. Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare? Avreste rifiutato la soluzione di mercato sulla base del fatto che la repellenza morale della caccia ai trofei è superiore ai benefici della salvaguardia? Oppure avreste deciso di pagare l’estorsione morale e di vendere il diritto di cacciare alcuni rinoceronti nella speranza di salvare la specie dall’estinzione? La risposta corretta dipende in parte dal fatto che il mercato riesca poi effettivamente a procurare, o meno, i benefici che promette. Ma dipende anche da un’altra questione: se i cacciatori di trofei sbagliano a trattare la fauna selvatica come un oggetto di sport e, in tal caso, dalla gravità morale di questo errore.

Il tema mette in discussione i nostro modelli etici e va attentamente valutato. Solo che tutta questa discussione sfugge di mano, quando sui social media appare la foto di una persona ricca con il fucile da una parte e il corpo di un animale protetto dall’altra. E le discussioni violente su Twitter sembrano avere un effetto sulle leggi sulla protezione della fauna selvatica. Personalmente sarei per proibire questo tipo di caccia e cercare altre risorse per proteggere le specie in via di estinzione, per cui non sono troppo dispiaciuto dall’esito – ma è inquietante come i social media riducano lo spazio per discussioni razionali.

Twitter, il mercato delle idee e quello pubblicitario

Dopo il cambio di proprietà gli inserzionisti stanno abbandonando Twitter. Una scelta compatibile con il modello del “libero mercato delle idee” che però solleva qualche preoccupazione.

Scopro, grazie a Paolo Attivissimo, che metà dei cento più importanti inserzionisti di Twitter non stanno più facendo pubblicità. Evidentemente le aziende non trovano interessante farsi pubblicità su Twitter dopo le novità introdotte, in maniera anche maldestra, da Elon Musk. Penso ai bollini blu, che certificavano l’identità degli account ufficiali e che improvvisamente sono stati aperti a tutti portando a una certa confusione. O alla riattivazione di diversi account sospesi per violazione delle regole, tra cui quello di Trump. Comprensibile che un’azienda voglia riconsiderare la propria presenza pubblicitaria sulla piattaforma. Il che non esclude, come denunciato dallo stesso Musk, che ci siano anche state pressioni da parte di alcuni movimenti.

Tutto questo rientra nel “libero mercato delle idee” che mi pare di capire sta alla base della concezione di Musk sulla libertà di espressione. Come la concorrenza e il mercato portano ad avere prodotti migliori, così il libero confronto delle opinioni porta ad avere le idee migliori. Quello che il modello del libero mercato delle idee non precisa è cosa si intenda con migliore. Parliamo di idee ben argomentate? Che indignano o divertono? Basate su fatti accertati?

In ogni caso, il libero mercato delle idee non vale solo all’interno di una piattaforma, ma anche tra piattaforme. Si sceglie quella in cui ci si trova meglio; io ad esempio sto guardando con un certo interesse Mastodon, e non sono il solo. E forse il libero mercato delle idee vale anche per gli inserzionisti: dopotutto non si limitano a comprare uno spazio pubblicitario neutro ma associano la propria immagine a quella di chi li ospita (e viceversa). Sulle riviste di astronomia non troviamo pubblicità di astrologi non solo perché sarebbero inserzioni inutili (gli appassionati di astronomia non credono agli oroscopi), ma anche perché dubito che gli uni vogliamo essere associati agli altri.
Insomma, se Musk vuole giocare al ”libero mercato delle idee” non può poi lamentarsi se a quel gioco rischia di perdere. Poi certo, accusare attivisti e aziende come Apple di tramare contro di lui, o addirittura contro la libertà di espressione, può essere utile per profilarsi verso una parte di pubblico. Il che spiegherebbe anche lo stile complottista di un tweet contro Apple nel quale si presenta come un segreto che finalmente Musk ha il coraggio di rivelare al mondo una cosa ben nota, la commissione del 30% sugli acquisti fatti su AppStore.

Ma se si accetta con riserva il modello del libero mercato delle idee? In quel caso c’è da essere un po’ preoccupati e per più di un motivo. Da una parte non è affatto semplice mettere in piedi un nuovo social network per cui quella concorrenza tra piattaforme è più una teoria, o una speranza, che una realtà. Pensare “tanto possiamo andare tutti da un’altra parte”, come il già citato Mastodon, è una consolazione molto parziale al peggioramento che sta avvenendo su Twitter.
Dall’altra parte la fuga degli inserzionisti mette in luce l’enorme potere che hanno le grandi aziende quando decidono dove fare pubblicità. Non è un problema nuovo e non riguarda solo i social network ma in generale tutti i media. E rimane un grosso problema anche se non abbiamo particolari simpatie per Musk e per la sua gestione dI Twitter.

Abbiamo bisogno di uno spazio a prova di fake news

La disinformazione può essere pericolosa. Ridurre la produzione e la circolazione delle fake news è difficile e pone problemi di libertà di espressione. Una possibile alternativa è cercare di renderle innocue con spazi di comunicazione sicuri.

Premessa: i ‘toot’ di Mastodon

In questi giorni sto sperimentando un po’ Mastodon, un social network non centralizzato come del resto era decentralizzata tutta la rete fino a qualche anno fa, con tanti server che dialogavano tra di loro in base a protocolli pubblici.

Di Mastodon avevo sentito parlare già da qualche anno e forse mi ero anche iscritto da qualche parte; il profilo che sto usando attualmente risale a fine agosto, prima quindi della “grande fuga da Twitter” dovuta all’arrivo di Elon Musk, ma non me ne faccio un vanto anche perché questo articolo parla solo collateralmente di Mastodon e di social media – se siete finiti qui aspettandovi spiegazioni tecniche, mi spiace ma dovrete andare altrove.

Inizio dalla mia esperienza su Mastodon perché in questi primi giorni sulla piattaforma ho scoperto un paio di caratteristiche interessanti. La prima è l’assenza del “retweet con commento“: puoi rispondere a un contenuto (che qui si chiamano toot), lo puoi condividere alle persone della tua comunità ma non puoi citarlo con un commento e questa, da quel che ho capito, non è una dimenticanza ma una scelta. Il “cita e commenta” è infatti usato per il cosiddetto “grandstanding“, il criticare non per far progredire una discussione ma per “mettersi sul podio”. Sul tema c’è un bel libro di Justin Tosi e Brandon Warmke.
La seconda cosa interessante di Mastodon è che la ricerca funziona solo sugli hashtag: se scrivo una cosa critica su Elon Musk nessun fan del nuovo proprietario di Twitter la troverà a meno che non decida di aggiungere #elonmusk.

Queste caratteristiche di Mastodon – e probabilmente anche altre che non ho ancora scoperto – mirano a contenere il linguaggio d’odio e la violenza verbale senza ricorrere alla moderazione dei contenuti o a sospensioni e cancellazioni di account, misure che comunque avverrebbero su un singolo server.
Non so quanto siano efficaci; non so neanche se Mastodon avrà un futuro o meno. Però avremmo bisogno di soluzioni simili anche per la disinformazione e le fake news.

Il problema delle fake news

Penso che si possa dare per scontato che le fake news siano un problema. Magari non tutti sono d’accordo su quanto siano pericolose e sull’efficacia e l’opportunità delle varie soluzioni prospettate, ma credo che tutti siano d’accordo sul fatto che in un mondo ideale le persone condividano informazioni che considerano vere e rilevanti.

Un po’ meno scontato capire cosa sia una fake news. Una notizia errata frutto di un serio lavoro giornalistico è una fake news? E una notizia inventata di sana pianta che si rivela casualmente vera? O un’informazione vera ma presentata in maniera ingannevole? A questa ambiguità del concetto di fake news – che avevo proposto di ribattezzare “pseudonotizie” – si aggiungono poi le difficoltà nel verificare i singoli casi: un bel problema se pensiamo di intervenire attraverso la censura, sia essa affidata a esseri umani o ad algoritmi. Senza dimenticare che impedire o comunque ostacolare la condivisione di fake news è una limitazione della libertà di espressione. Il che non significa che sia sbagliata, ma solo che bisogna rifletterci bene.

Se è una buona cosa permettere di criticare e mettere in dubbio qualsiasi affermazione, anche e forse soprattutto quelle vere, d’altra parte ci sono fake news che possono causare danni, come la disinformazione intorno a farmaci sicuri ed efficaci.

L’esempio classico è considerare i panettieri responsabili della scarsità di pane: un conto è presentare questa ipotesi in una pacata discussione sull’aumento dei prezzi, un altro è affermarlo davanti a una folla affamata e inferocita. Una versione ancora più semplice riguarda il gridare “Al fuoco!” in un teatro affollato. E certo è opportuno che le persone non gridino “Al fuoco!”, ma come impedirlo? Forse conviene controllare gli impianti di sicurezza ed evitare che ci sia troppa gente in teatro.

È possibile pensare a spazi di comunicazione in cui le fake news possano diffondersi senza fare danni? Non lo so, ma certamente non sono il primo a guardare al fenomeno della disinformazione ragionando anche sulle caratteristiche dei vari mezzi di comunicazione che, a seconda delle dinamiche che instaurano, possono favorire o meno determinati comportamenti.

Come scaricare immagini da Instagram senza far ricorso a strani servizi

Ogni tanto mi capita di dover scaricare immagini da Instagram.

L’operazione è semplicissima: basta aggiungere

media/?size=l

all’url dell’immagine. Per cui (prendo una foto dal mio profilo)

https://www.instagram.com/p/CUZdI8yNFYu/

diventa

https://www.instagram.com/p/CUZdI8yNFYu/media/?size=l

che mostra la foto in quella che credo sia la dimensione massima che Instagram ha sui suoi server.

Scrivo tutto questo fondamentalmente come promemoria perché se fino a qualche mese fa trovavo facilmente la stringa “media/?size=l”, adesso è tutto un fiorire di siti che ti offrono questo servizio proponendo un sacco di pubblicità.

Antinomie pubblicitarie su Facebook

Non so bene come Facebook mi abbia profilato, ma so che le due inserzioni che ultimamente vanno per la maggiore sono paradossalmente complementari. La prima mi esorta a non perdere tempo con “allenamenti cardio” (che immagino siano quelli più intensivi tipo correre finché si ha fiato) ma scoprire qual è il modo migliore per perdere peso e mettere su muscoli (ma non pesano, i muscoli?) in base al mio tipo di fisico. Ce ne sarebbero tre, ma non so esattamente quali sono perché dovrei iscrivermi.

La seconda inserzione, invece, affronta lo stesso problema ma da un altro punto di vista: basta comprare la maglietta giusta per sembrare più muscolosi e nascondere la pancia. La maglietta è presentata come “il reggiseno push up per gli uomini” con l’invito a vestire “less dad and more daddy” (il che mi pare una cosa un po’ maschilista, ma non ho voglia di approfondire).

Di per sé non c’è nulla di realmente nuovo: le pubblicità hanno sempre avuto come scopo quello di vendere soluzioni facili a problemi di cui ignoravi l’esistenza (perché i problemi di cui sei consapevole o li hai già risolti, oppure sai già che non hanno una soluzione semplice). Però è interessante che il problema di base è la forma fisica: mi chiedo se sia, appunto, una questione di profilo (rientro nel range della “crisi di mezza età”) oppure se dipenda dal fatto che ormai Facebook è frequentato soprattutto da quarantenni per cui le aziende disposte a far pubblicità son quelle lì.

Sono tentato di iscrivermi a TikTok per vedere che inserzioni mi ritrovo.

Stiamo di nuovo parlando di Salvini

La campagna elettorale italiana è appena iniziata e già Matteo Salvini è riuscito a infiltrarsi nella mia “bolla social”. Non seguo account politici e neanche di simpatizzanti della Lega Nord, eppure la sparata del segretario leghista sugli appelli fatti per cognome anziché nome perché magari a scuola c’è qualche bambino dall’incerta identità di genere mi è arrivata più volte.

Commenti ironici, spesso abbinando allo sfottò anche un minimo di debunking sul fatto che è normale fare l’appello per cognome. Intanto siamo qui, come già accaduto anni fa, che parliamo di Salvini e degli appelli, senza neanche entrare nel merito di come la scuola debba tutelare le persone transgender (definiti da Salvini “fluidi”, termine che temo stia assumendo una connotazione negativa) o di altri temi politici. E lasciando passare tutto l’implicito – al quale inizialmente non avevo fatto caso e che mi ha fatto notare .mau. – di un elenco di nomi tutti italiani.

Note su #facebookdown

Fare a meno di Facebook

Ieri per qualche ora tutti i servizi di Facebook – quindi anche WhatsApp, Instagram e altre cose di cui ignoro l’esistenza – hanno smesso di funzionare.

A quanto pare, qualcuno – direi per errore, applicando il Rasoio di Hanlon – ha rimosso tutti i server di Facebook dai registri di internet: sistemare l’errore non è stato facile dal momento che l’azienda stessa si appoggia interamente ai propri servizi. Per cui non si potevano contattare le persone, i badge per entrare negli uffici non funzionavano eccetera.

Guarderò con molto piacere il film o la serie tv che spero presto qualcuno trarrà da questa vicenda; intanto qualche riflessione.
La più ovvia è: pensa sempre a un’alternativa. Questo non vale solo per chi gestisce l’infrastruttura di un’azienda, ma anche per gli utenti. Se qualcosa è importante – e gli strumenti di comunicazione per quanto frivoli possa essere il loro utilizzo sono importanti – pensa a un’alternativa
Una cosa meno ovvia è riflettere sulla fragilità di un sistema che si basa su pochi operatori “chiusi in sé stessi”. Confronta Facebook (o Twitter, o Slack, o Zoom, o Google Meets, o…) con le email: se il primo ha problemi, tutto si blocca; se il mio provider si blocca, io ho problemi a inviare e ricevere mail ma tutto il resto del mondo va avanti (e io posso tranquillamente comunicare con un altro indirizzo email).
Il fatto è che è molto più comodo e io stesso, per pigrizia, ho commentato questa cosa su Twitter anziché scrivere un articolo su questo sito.