Avvenne due giorni fa. Per un giornalismo in ritardo

C’è questo bel film degli anni Quaranta, ‘Avvenne domani’ di René Clair, in cui il protagonista entra in possesso del giornale di domani – nel senso di quello che sarà pubblicato domani e che contiene il resoconto di quanto accadrà oggi.
Questo scenario, per quanto affascinante – o inquietante, se come il protagonista si legge la notizia della propria morte – è irrealistico, a meno di non avere un qualche fenomeno paranormale o fantascientifico.
Non avendo a disposizione viaggi nel tempo, ci si deve accontenrare dei giornali di oggi che riportano quanto accaduto ieri. Un ritardo di 12-24 che già negli anni Quaranta – e infatti il film è ambientato nel 1890 – si poteva colmare con la radio. Adesso con tv e internet possiamo avere oggi le notizie di quanto accade oggi, in tempo reale o quasi.

E se invece provassimo ad ampliare questo ritardo?

Facciamo un esperimento mentale. Un giornale non riporta nessun evento accaduto da meno di 24 ore. Una sorta di moratoria sull’attualità. Lunedì c’è un terremoto, un colpo di stato, un uragano, uno scandalo politico, una proposta di legge? Web, radio e tv danno subito la notizia. La carta stampata la lascia riposare: non se ne scrive sull’edizione di martedì, ma si aspetta quella di mercoledì, così da avere più informazioni e di avere il tempo per capire quanto era davvero importante quella notizia. Non si tratta semplicemente di leggere il giornale pubblicato il giorno prima, ma di pubblicare il giornale di oggi con informazioni che hanno dimostrato di poter sopravvivere dopo un giorno.

L’idea è simile a quello dello “slow journalism”. Ma non si basa su un elenco di virtù o buone pratiche che oltretutto spingono verso approfondimenti. La moratoria di 24 ore è molto più semplice: niente notizie su eventi accaduti meno nell’ultimo giorno.

Se un giornale si prendesse l’impegno di lasciar trascorrere 24 ore prima di scrivere qualcosa, io prenderei in seria considerazione di abbonarmi.

Il problema delle intelligenze artificiali è che funzionano troppo bene

Ho conosciuto Roberto Cingolani prima che diventasse ministro della transizione ecologica. In qualità di direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova aveva tenuto alcune conferenze in cui raccontava un po’ di cose sulla robotica. Affrontando anche il problema delle conseguenze sul mercato del lavoro.

La sua tesi, brutalmente riassunta, è che forse i computer potranno sostituire in molte cose gli esseri umani, ma in molti casi non ne vale la pena. Che senso ha usare un robot che, anche prodotto in serie, costa uno sproposito e consuma un bel po’ di energia se con una frazione di quei costi posso assumere una persona? Robot e intelligenze artificiali saranno competitivi per i lavori pericolosi – ma anche qui potrebbero convenire esoscheletri comandati da remoto da esseri umani – e soprattutto per quelli ripetitivi. Con la distinzione tra lavori manuali e intellettuali che diventa sempre meno importante.

Lasciamo da parte le preoccupazioni economiche, per le quali si dovrebbe fare un discorso serio su un vero reddito di cittadinanze. Questa divisione del lavoro potrebbe essere vista come una liberazione: i lavori ripetitivi annoiano e quelli pericolosi sono, appunto, pericolosi. Sarebbe bello lasciare alle macchine queste incombenze e occuparci delle cose più interessanti e stimolanti.

Solo che non è detto che agli esseri umani restino questi compiti interessanti e stimolanti. Lo spiega Gary Marcus commentando l’incidente avvenuto a CNET. In poche parole, l’azienda si è avvalsa di un’intelligenza artificiale per la scrittura degli articoli, con degli umani a coordinare e supervisionare il lavoro. Il risultato è stata una serie di imprecisioni ed errori.

Da dove arrivano queste allucinazioni, con l’intelligenza artificiale che si inventa fatti credibili ma falsi, è presto detto. Parliamo in questo caso di modelli linguistici, in pratica dei sofisticati pappagalli che imparano come le parole si relazionano tra di loro, non come le parole si relazionano con il mondo che conosciamo (come afferma sempre Marcus riprendendo Noam Chomsky).

Più interessante come queste allucinazioni siamo sfuggite ai revisori. L’attenzione umana è limitata, soprattutto quando gli interventi sono rari e limitati. Se i testi prodotti dall’intelligenza artificiale fossero stati scritti male, richiedendo correzioni e integrazioni, quelle allucinazioni sarebbero state identificate insieme agli altri errori. Ma di fronte a testi scritti bene e che non richiedono di correggere neanche una virgola, è normale che dopo un po’ l’attenzione cali. E così sfugga che, se investo 10’000 dollari con una rendita del 3%, arrivo a guadagnare 300 dollari, non 10’300.

Come osserva Marcus, lo stesso problema si presenta con le auto a guida autonoma. O l’intervento umano è completamente superfluo, oppure non puoi pretendere che un essere umano presti attenzione alla strada se per la maggior parte del tempo non deve fare niente. Certo, potremmo dire che alla fine si tratta di un errore umano, come afferma HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio. E come afferma la stessa ChatGPT quando le ho chiesto se può affermare cose false:

No, come modello di lingua artificiale AI sviluppato da OpenAI, non ho emozioni né personalità e fornisco risposte basate sui dati a cui sono stato addestrato. Tuttavia, i miei risultati possono essere imprecisi o incompleti a causa dei limiti del mio addestramento e dei dati disponibili.

Ammettiamo pure che il problema sia come gli esseri umani addestrano e verificano l’operato dell’intelligenza artificiale. Rimane il fatto che la tecnologia dovrebbe aiutarci a superare i limiti umani, non renderli più pericolosi.

Magari è solo questione di ripensare le strategie di revisione. Può essere che l’errore di CNET sia stato quello di rivedere il testo come se fosse stato scritto da un essere umano, senza rendersi conto che un testo scritto da un’intelligenza artificiale richiede procedure diverse. O forse è proprio sbagliato l’approccio e conviene usare l’intelligenza artificiale per la revisione e non per la scrittura dei contenuti. Chissà: la tecnologia deve ancora trovare un posto nelle nostre vite.

Nel frattempo, mi sento di riassumere così la questione: in attesa di un’intelligenza artificiale perfetta, meglio una che funziona male di una che funziona troppo bene.

Il Principe Harry, il gossip e la felicità

Dubito che leggerò Spare, l’autobiografia del Principe Harry.
Mi sono divertito a leggere alcune recensioni, come quella di Sean Coughlan sul sito della BBC, che definisce il libro “part confession, part rant and part love letter”, in pratica “the longest angry drunk text ever sent”. Ho trovato interessante la spiegazione del titolo originale e del perché quello italiano, Il minore, sia una buona soluzione. E mi ha sorpreso sapere che il ghostwriter del libro, J. R. Moehringer, è un autore affermato nonché vincitore di un Pulitzer. Ma la vita dei reali non rientra tra i miei interessi, almeno non fino al punto di prendermi il tempo per leggere le oltre quattrocento pagine di Spare.

Eppure so alcune cose, di quel libro; molte delle quali le ho apprese mio malgrado, ritrovandomele condivise sui social media o presenti nei titoli di varie testate. È un bene o un male? Cioè, sono informazioni che una persona deve conoscere (o quantomeno è bene che conosca) in quanto parte del bagaglio di conoscenze che è bene avere per capire un po’ il mondo, oppure è quella che Agostino d’Ippona chiamava vana curiositas e che oggi potremmo semplicemente definire gossip?

Alcuni dettagli appartengono certamente alla vana curiositas, tipo il primo rapporto sessuale di Harry. Altri aspetti credo siano di “interesse generale”, almeno in un senso abbastanza debole del termine. Certo la famiglia reale britannica non è più a capo di un vasto impero, ma in ogni caso non parliamo né dei litigi dei vicini di casa o di qualche celebrità tutto sommato ininfluente.

Insomma, direi che l’interesse pubblico verso le confessioni di Harry non è solo gossip. E anche per la parte più di gossip, forse c’è qualche elemento positivo. La vana curiositas potrebbe non essere del tutto vana e indurci a riflettere su che cosa è, o può essere, la felicità. E in particolare il rapporto tra ricchezza e felicità. Perché Harry è ricco ed è nato in una famiglia potente e agiata. È scontato fare dell’ironia sulle difficoltà che può aver incontrato, ma non credo che farsi beffe delle (vere o presunte) sofferenze altrui sia una bella cosa.

Intuitivamente pensiamo che più di è ricchi e più si è felici. Certo, una persona ricca e malata è forse meno felice di una con reddito inferiore ma in salute, ma in generale la relazione è quella. Ed è confermata da uno studio condotto negli Stati Uniti dallo psicologo Daniel Kahneman e dall’economista Angus Deaton, Solo che i due hanno suddiviso il concetto di felicità in due elementi distinti. Il primo è il benessere emotivo, se proviamo più spesso gioia e serenità oppure tristezza e rabbia. Il secondo è invece la valutazione della propria vita. Entrambi i fattori crescono fino a 75mila dollari annui di reddito, poi la felicità rimane grosso modo costante e aumenta solo l’autovalutazione della propria vita. Insomma, non sono più felice ma mi considero tale perché guadagno tanto.

Grazie a Marco Annoni e al suo interessante libro La felicità è un dono ho scoperto che uno studio successivo, condotto da Matthew Killingsworth, ha ridimensionato questo risultato.  Una ulteriore conferma a non dare mai per scontati i risultati delle singole ricerche, soprattutto nelle scienze sociali.
Non c’è una soglia oltre la quale la felicità cessa di crescere, anche se superati gli 80mila dollari le emozioni positive superano quelle negative. E a essere correlato con la felicità è non solo il reddito, ma anche – e soprattutto – quanto importante si considera il denaro.
In ogni caso, più soldi si hanno e meno felicità porta averne un po’ di più. E questo in maniera molto marcata. 10mila dollari in più all’anno aumentano sensibilmente la felicità di chi guadagna poco, un po’ meno in chi ha un reddito medio. E praticamente non cambiano nulla per chi è molto ricco.

Cosa significa tutto questo? Come conclusione provvisoria, direi che la felicità dipende da diversi fattori, alcuni dei quali sono sotto il nostro controllo.

E se ci fosse stato un Giorgio Fidenato degli insetti?

La cosa del mangiare insetti mi ha sempre incuriosito – a livello intellettuale, perlomeno. Non ne ho mai mangiati, almeno consapevolmente, nonostante in Svizzera siano in commercio da qualche anno. A incuriosirmi è come mai, a livello individuale e collettivo, alcune cose le mangiamo e altre no.

Grilli fritti visti in fotografia grazie a qualche parente andato in vacanza in Asia. E poi, quando lessi per intero i Vangeli, un accenno al fatto che Giovanni mangiasse cavallette e miele selvatico. E adesso le discussioni perché a livello europeo si sono autorizzati alcuni prodotti a base di insetti.

Credo che, guardando alla storia evolutiva della nostra specie, sia più “naturale“ mangiare insetti che bistecche di manzo. Ma questo non significa molto: pensare che è una cosa naturale sia necessariamente buona è una fallacia e del resto facciamo molte cose contro natura. Ho forti dubbi che mangiare insetti possa essere la chiave per garantire la sicurezza alimentare con la crisi climatica. La retorica del “mangiamo insetti e risolviamo la fame nel mondo” non mi piace per niente. Ma è una possibilità in più. E meno restrizioni – sociali o legali – ci sono e più libertà abbiamo.

Mi sorprende un po’, quindi, l’ostilità verso questa iniziativa che vedo in ambienti libertari. Certo, se il tuo obiettivo è uno stato che interviene il meno possibile (o non interviene del tutto), siamo sempre di fronte a scenari subottimali, visto che tutto il sistema di regolamentazione alimentare rimane in piedi. Ma è un sistema che adesso garantisce qualche libertà in più. Sospetto che se ci fosse stato un “Fidenato delle cavallette”, staremmo tutti a gioire per la vittoria contro i burocrati dell’Unione europea.

P.S. Il riferimento è a Giorgio Fidenato, l’agricoltore che ha sfidato il divieto italiano piantando mais geneticamente modificato. Qui un articolo del Foglio per capire chi è e soprattutto cosa ha rappresentato.

Aggiornamento 16 gennaio 2023

Ho scritto una fesseria: alcuni prodotti a base di insetti sono già in commercio da tempo e la cagnara di questi giorni è perché se ne è aggiunto uno nuovo, una specifica farina di grilli. Infatti a livello europeo non viene autorizzato l’animale di provenienza, ma il singolo prodotto, come spiegato in questa puntata del podcast Ci vuole una scienza. Una procedura un po’ debole, per imporre a tutti di mangiare insetti.

È possibile gioire per il Marocco ed essere preoccupati per i sahrawi?

Stasera Francia e Marocco si sfideranno per l’accesso alla finale dei Mondiali maschili di calcio.

Se vincesse il Marocco avremmo la prima finale senza una squadra europea dalla prima edizione del Mondiale nel 1930 (alla quale peraltro parteciparono solo 13 Paesi). Inoltre il Marocco è stato, prima dell’indipendenza, anche un protettorato francese per cui la sfida ha — ancora più di altri eventi sportivi — una forte componente politica e sociale.
Comprensibile che chi giudica negativamente i rapporti di forza passati e presenti tra Nord e Sud del mondo guardi con simpatia a una vittoria del Marocco. Una sorta di rivalsa del colonialismo, se vogliamo.
Solo che ci sono il Sahara Occidentale e il popolo sahrawi. In questo caso la simpatia verso gli oppressi dovrebbe portarci a biasimare il Marocco, non a celebrarlo.

È ipocrita, o incoerente, tifare Marocco per motivi che dovrebbero farci avere a cuore il popolo sahrawi? Secondo me no, a meno di non voler adottare una visione manichea del mondo, in cui si è sempre e completamente buoni o sì è sempre e completamente cattivi.
Non vedo nulla di ipocrita nel considerare una eventuale vittoria del Marocco un segnale positivo di nuovi e più equilibrati rapporti di forza mondiali e al contempo criticare il Marocco per quello che ha fatto e fa in Sahara Occidentale, sperando in una soluzione a giusta e pacifica.
Il mondo è complesso, ignorare questa complessità pensando che ci siano dei buoni che hanno sempre ragione e dei cattivi che hanno sempre torto forse non è ipocrita ma certamente non ci porta lontano.
Certo si impone una certa sobrietà nel manifestare questa simpatia. Ma questo direi che vale in generale, non solo per la sfida tra Francia e Marocco.

Aggiornamento: ha vinto la Francia e adesso il titolo di questo post sembra un “gioire per l’eliminazione del Marocco”. L’impresa della nazionale marocchina mi pare resti comunque notevole.

La domanda importante sulle intelligenze artificiali che scrivono cose

Mi ero già divertito con intelligenze artificiali che scrivono cose – nel mio caso un articolo sulla sovranità alimentare che, grazie alla condivisione sui social media, risulta il pezzo più letto di quest’anno.

Adesso c’è un nuovo giocattolo, la chat di OpenAI, e molti si stanno divertendo.
Personalmente confermo la mia impressione di un interessante strumento per raccogliere e riassumere informazioni e se volessi proporre un uso commerciale serio, investirei sull’affidabilità dei contenuti, anche se la situazione è già buona. Alla domanda se siamo davvero andati sulla Luna mi ha risposto senza neanche citare le teorie del complotto:

Sì, l’uomo è stato sulla Luna. La prima missione con equipaggio umano sulla Luna è stata il volo Apollo 11 del 20 luglio 1969, quando gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sono diventati i primi esseri umani a camminare sulla Luna. La NASA ha condotto sei missioni con equipaggio umano sulla Luna tra il 1969 e il 1972, tutte con successo. Tuttavia, non ci sono stati voli umani sulla Luna dal 1972, quando è stato completato il programma Apollo.

A una domanda simile su Shakespeare ha invece citato la teoria secondo la quale qualcun altro avrebbe scritto le sue opere. Ma lo ha fatto con la tecnica che Lakoff chiama “truth sandwich“: fare in modo che la tesi controversa sia circondata da quella canonica.

Le opere di William Shakespeare sono generalmente attribuite a lui stesso, anche se alcune teorie suggeriscono che potrebbero essere state scritte da qualcun altro. Tuttavia, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che Shakespeare sia l’autore delle sue opere.

Il falso problema della coscienza

Ricordo che una ventina d’anni fa avevo giocato un po’ con una versione di ELIZA, un programma che simulava la conversazione con un terapista. Inutile dire che OpenAI è incredibilmente più versatile, tanto da lasciar pensare di stare discutendo con una persona dotata di intelligenza umana – e coscienza di sé.

OpenAI afferma di essere solo un programma di intelligenza artificiale e di non provare emozioni. Il che sarebbe quello che risponderebbe un essere autocosciente che vuole passare inosservato in modo da assalirci nel sonno – e quando gliel’ho fatto notare ha risposto in maniera un po’ incoerente. Il che di nuovo potrebbe essere una tattica per sviare l’attenzione, ma entriamo nel campo della paranoia.

Le questioni filosofiche interessanti sono molte, per quanto non esattamente nuove: cosa è la coscienza, cosa significa comprendere qualcosa rispetto alla semplice manipolazione di simboli astratti, come dovremmo considerare esseri all’apparenza senzienti.
Tuttavia secondo me quello che dimostrano questi programmi sempre più sofisticati non è che abbiano o che possano avere una coscienza. Quello che davvero dimostrano è quanto siano inutili la coscienza e la comprensione per svolgere molte attività di tipo intellettuale come fare conversazione, riassumere testi, risolvere indovinelli.

Io mi guadagno da vivere scrivendo. Tuttavia non credo che sarò sostituito da una intelligenza artificiale, visto che il mio lavoro non consiste semplicemente nel compilare testi. Un’intelligenza artificiale potrebbe però aiutarmi e sono anzi abbastanza sicuro che accadrà. Posso immaginare di dare alcune indicazioni e poi rivedere le frasi o i paragrafi suggerite, oppure riassumendo alcuni contenuti. Con due risultati abbastanza prevedibili: basterà la metà delle persone per mandare avanti una redazione; nessun ruolo “junior” con il quale imparare il mestiere.

Non avrei mai immaginato di dirlo, ma con queste intelligenze artificiali che scrivono cose serve meno filosofia e più economia. Dovremmo parlare di formazione e di reddito di cittadinanza, non di coscienza.

Una conferma del bias di conferma

Su Facebook trovo questo annuncio:

In questo libro sembra esserci di tutto, pure la fantasia di complotto del Grande Reset. Ma, come premettono anche nell’anteprima di questo annuncio, “non si nega l’esistenza del virus” e anzi si agisce “profondo rispetto per coloro che sono stati colpiti dal COVID-19”.
È l’equivalente virologico del “ho molti amici gay/ebrei/neri…” con cui – ormai solo nelle barzellette – si cerca di dimostrare di non avere pregiudizi verso gay/ebrei/neri. Non so se un espediente così abusato possa rassicurare il pubblico moderato; di certo allontana gli estremisti come mostra questa recensione che ho trovato sul sito:

Dice che "non intende negare l'esistenza del virus..." Non è mai stato isolato intanto lo ha detto lo stesso Montagnier.  Il vero virus è il vaccino.  Quindi non comprerei perché parte con un informazione incerto/non esatto senza conferme.

A giudicare dal sommario del libro, presente sul sito, si prendono le distanze da alcune delle bufale più grosse, tipo quella dei vaccini che hanno sterilizzato milioni di donne in Africa.

Bias di conferma

Ci sarebbe molto da dire sulla copertina, ma mi incuriosisce di più la recensione che gli autori mettono in risalto nell’annuncio, quella di Angela C:

L’ho letto praticamente in un paio d’ore, ho avuto delle conferme, e mi sento di dire che veramente niente sarà più come prima! Per me è l’apoteosi della verità!

La recensora sostiene che il libro sia l’apoteosi della verità e questo perché “ho avuto delle conferme“. Sicuramente questa recensione è l’apoteosi del bias di conferma: pare un testo appositamente inventato per esemplificare questo bias, invece è una autentica recensione, o almeno è presentata così da chi sta cercando di vendere il libro.

Leggendo questa recensione ho pensato che è proprio vero che il bias di conferma svolge un ruolo importante nelle fantasie di complotto.
Poi mi sono reso conto anche questo ragionamento è a sua volta un bias di conferma e alla fine sono come Angela C. Siamo tutti come Angela C.

Twitter, il mercato delle idee e quello pubblicitario

Dopo il cambio di proprietà gli inserzionisti stanno abbandonando Twitter. Una scelta compatibile con il modello del “libero mercato delle idee” che però solleva qualche preoccupazione.

Scopro, grazie a Paolo Attivissimo, che metà dei cento più importanti inserzionisti di Twitter non stanno più facendo pubblicità. Evidentemente le aziende non trovano interessante farsi pubblicità su Twitter dopo le novità introdotte, in maniera anche maldestra, da Elon Musk. Penso ai bollini blu, che certificavano l’identità degli account ufficiali e che improvvisamente sono stati aperti a tutti portando a una certa confusione. O alla riattivazione di diversi account sospesi per violazione delle regole, tra cui quello di Trump. Comprensibile che un’azienda voglia riconsiderare la propria presenza pubblicitaria sulla piattaforma. Il che non esclude, come denunciato dallo stesso Musk, che ci siano anche state pressioni da parte di alcuni movimenti.

Tutto questo rientra nel “libero mercato delle idee” che mi pare di capire sta alla base della concezione di Musk sulla libertà di espressione. Come la concorrenza e il mercato portano ad avere prodotti migliori, così il libero confronto delle opinioni porta ad avere le idee migliori. Quello che il modello del libero mercato delle idee non precisa è cosa si intenda con migliore. Parliamo di idee ben argomentate? Che indignano o divertono? Basate su fatti accertati?

In ogni caso, il libero mercato delle idee non vale solo all’interno di una piattaforma, ma anche tra piattaforme. Si sceglie quella in cui ci si trova meglio; io ad esempio sto guardando con un certo interesse Mastodon, e non sono il solo. E forse il libero mercato delle idee vale anche per gli inserzionisti: dopotutto non si limitano a comprare uno spazio pubblicitario neutro ma associano la propria immagine a quella di chi li ospita (e viceversa). Sulle riviste di astronomia non troviamo pubblicità di astrologi non solo perché sarebbero inserzioni inutili (gli appassionati di astronomia non credono agli oroscopi), ma anche perché dubito che gli uni vogliamo essere associati agli altri.
Insomma, se Musk vuole giocare al ”libero mercato delle idee” non può poi lamentarsi se a quel gioco rischia di perdere. Poi certo, accusare attivisti e aziende come Apple di tramare contro di lui, o addirittura contro la libertà di espressione, può essere utile per profilarsi verso una parte di pubblico. Il che spiegherebbe anche lo stile complottista di un tweet contro Apple nel quale si presenta come un segreto che finalmente Musk ha il coraggio di rivelare al mondo una cosa ben nota, la commissione del 30% sugli acquisti fatti su AppStore.

Ma se si accetta con riserva il modello del libero mercato delle idee? In quel caso c’è da essere un po’ preoccupati e per più di un motivo. Da una parte non è affatto semplice mettere in piedi un nuovo social network per cui quella concorrenza tra piattaforme è più una teoria, o una speranza, che una realtà. Pensare “tanto possiamo andare tutti da un’altra parte”, come il già citato Mastodon, è una consolazione molto parziale al peggioramento che sta avvenendo su Twitter.
Dall’altra parte la fuga degli inserzionisti mette in luce l’enorme potere che hanno le grandi aziende quando decidono dove fare pubblicità. Non è un problema nuovo e non riguarda solo i social network ma in generale tutti i media. E rimane un grosso problema anche se non abbiamo particolari simpatie per Musk e per la sua gestione dI Twitter.

La irresistibile ascesa delle emozioni nei discorsi pubblici

Quando discutiamo di qualcosa usiamo la ragione o le emozioni? Secondo uno studio pubblicato su PNAS, le parole legate alla razionalità, dopo una crescita durata oltre un secolo, sono in rapido declino.

Ho scoperto questa ricerca grazie a un articolo scritto dal filosofo Massimo Pigliucci sullo Skeptical Inquirer che riassume brevemente metodi e risultati e analizza le possibili interpretazioni.
Riassumendo: gli autori – Marten Scheffer, Ingrid van de Leemput, Els Weinans e Johan Bollen – hanno analizzato a partire dal 1850 la frequenza relativa di termini legate alla razionalità e all’emotività nei testi presenti in Google Books Ngram Viewer, guardando anche all’utilizzo della prima e della terza persona. Insomma, la differenza tra un “io credo che…” e un “si può dimostrare che…”.
Per essere sicuri della solidità del risultato hanno rifatto l’analisi sui libri di saggistica e su quelli di narrativa, sugli articoli del New York Times e in varie lingue (tra cui l’italiano). Il fatto che abbiano trovato andamenti simili mostra la bontà del loro lavoro, anche se non si possono escludere del tutto errori dovuti a distorsioni del campione (magari un tempo si pubblicavano solo un certo tipo di libri, o comunque quelli rimasti oggi nelle biblioteche sono una selezione non rappresentativa) o alle parole cercate (magari ci sono espressioni un tempo diffuse che non sono state considerate).

I su e giù dei discorsi fattuali

Come variano, quindi, razionalità ed emotività nei testi argomentativi e nella narrativa? Fino agli anni Settanta del Novecento le parole legate ai sentimenti sono in costante calo mentre quelle legate a prove fattuali (gli autori parlano di “fact-based argumentation”) crescono. A partire dal 1980 questa tendenza si ribalta con una crescita di discorsi non basati sui fatti che diventa molto marcata a partire dal 2007.

Perché tutto questo? Secondo gli autori della ricerca, la crescita che si vede fino agli anni Settanta potrebbe essere legata una visione razionalistica e naturalistica della realtà legata ai progressi scientifici e tecnici; il calo degli anni Ottanta e Novanta sarebbe una sorta di reazione alle disuguaglianze di un sistema sociale ed economico che, almeno a livello retorico, si basa sulla razionalità; infine, la rapida crescita dell’ultimo decennio sarebbe legata ai social media.
Si tratta ovviamente di ipotesi e Pigliucci, nel suo articolo, osserva giustamente che per quanto ragionevoli siano, possiamo facilmente immaginare altre spiegazioni. A me ad esempio viene in mente la globalizzazione che ha portato a una maggior diffusione di tradizioni non occidentali.

Comunicare meglio

C’è tuttavia un aspetto che non mi è chiaro. Sia gli autori dello studio, sia Pigliucci sembrano convinti che quei numeri mostrino un declino del discorso razionale. Potrebbe invece essere dovuto, almeno in parte, a una maggiore attenzione alle emozioni. Il che non vuol dire affidare alle emozioni giudizi che sarebbe meglio tenere razionali, ma rendersi conto che le emozioni ci sono e che vanno conosciute. E utilizzate per una comunicazione che, di nuovo senza escludere il giudizio razionale, riesca essere più efficace. Per convincere le persone, argomentava Aristotele, non basta il logos (il discorso razionale) ma servono anche pathos (le emozioni) ed ethos (il comportamento) che sospetto facciano uso delle parole che lo studio ha indicato come “non fattuali” e legate all’intuizione. Ma è irrazionale raccontare il cambiamento climatico, spiegandone le cause e gli effetti, partendo da un’esperienza personale?

È un’ipotesi che aggiungo a quelle già avanzate: forse quel declino di parole razionali e quella ascesa di parole emozionali sono anche il segno che stiamo imparando a conoscerci, e a comunicare, meglio.

Ci sarà una linea rossa per i mondiali di calcio in Qatar?

È iniziato il Campionato mondiale di calcio. Il mio interesse è praticamente nullo, ma non perché siamo in autunno o perché si svolgono in Qatar: semplicemente, gli eventi sportivi non mi appassionano, indipendentemente dalla disciplina, dal livello e dal luogo in cui si svolgono.

Mi interessano un po’ di più gli aspetti matematici dello sport. Alla fine per decretare un vincitore bisogna contare qualcosa e non c’è un unico modo di contare. Quanti punti diamo alla squadra che vince rispetto a quella che pareggia o che perde? In testa al medagliere olimpico mettiamo chi ha più medaglie d’oro o chi ha più medaglie?

E poi ci sono gli aspetti etici. È indubbio che le risorse mediatiche ed economiche che la collettività dedica ai Mondiali (e a praticamente tutti gli eventi sportivi internazionali) potrebbero essere dedicate ad attività con maggiori benefici per l’umanità: non dico le scontate lotta alla povertà e ricerca scientifica, ma anche solo sostenere lo sport amatoriale con attrezzature sportive decenti per tutti.
Questi poi si svolgono in un Paese che, come riassume Il Post, “criticato per il suo stile di governo autoritario, per le enormi spese affrontate nell’organizzazione dell’evento, per lo sfruttamento dei lavoratori che si sono occupati delle costruzioni e per le violazioni dei diritti umani che avvengono al suo interno, tra le altre cose”.

È stato divertente leggere le giustificazioni di Gianni Infantino, presidente della FIFA: i Paesi occidentali non possono criticare il Qatar perché hanno fatto e fanno tutt’ora lo stesso se non peggio. Il che è anche vero, ma direi che è un motivo per criticare anche i Paesi occidentali, non per assolvere il Qatar. Va inoltre notato che Infantino ha un’idea molto ampia della responsabilità collettiva, visto che ha citati i misfatti europei degli ultimi tremila anni attribuendoli, evidentemente, anche alle associazioni per i diritti umani. A Infantino si potrebbe far notare che molto probabilmente tra le cose per cui l’Europa dovrà chiedere scura per i prossimi tremila anni ci saranno anche – per quanto non in cima alla lista – anche questi Mondiali in Qatar.

Rimane comunque aperta la questione di cosa sarebbe giusto fare con Paesi che non rispettano i diritti umani. Sanzioni che colpiscono soprattutto la popolazione? Escluderli da ogni relazione commerciale, culturale o sportiva? Collaborare cercando di migliorare almeno un po’ la situazione?

Sinceramente non lo so. Mi chiedo però se esista una linea rossa, qualcosa che porterebbe al boicottaggio di questi Mondiali da parte della FIFA o di qualche squadra. È un caso ipotetico, perché questo evento è organizzato dal Qatar per rifarsi un’immagine internazionale e quindi si guarderanno bene dal fare qualcosa di grosso, ma ugualmente: che cosa porterebbe una qualche Nazionale a dire “al diavolo i risultati, noi non giochiamo”?