Categories: Narrativa

Massimo Reichlin

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Lungo racconto, quasi un saggio, scritto molti anni fa da mio fratello Massimo. Tratta, a suo modo, del problema della Biblioteca di Babele.

Dei libri

Ogni parola di ogni libro è muta. All’uomo, darle voce.

Era ormai parecchio tempo che meditavo la decisione. Davvero, sentivo di essere giunto al limite. I giorni si susseguivano l’uno dopo l’altro come i fotogrammi di un film scontato e noioso, proiettato su una parete nuda e scialba. Film del quale non mi riconoscevo regista né attore, e neppure, quantomeno, interessato spettatore. Semplicemente, il tutto era privo di stimoli, di acuti sia in una direzione che nell’altra, di possibilità. La trama pareva non aver senso: comunque, esso non mi era accessibile.
Sì, occorreva una svolta. Decisa, repentina, completa. In fondo non sarebbe stata così difficile. La volontà era lì, ben piantata sulle arcuate gambe; e, si sa, nell’uomo la volontà può cavalcare il mero istinto di sopravvivenza. Ciò può a volte essere la sua dannazione, ma rappresenta senza dubbio la sua unica via.
Che diamine! Per non scivolare in balia della affezioni le più meschine, per guardare oltre le maschere delle cose, per liberarsi della bramosia di possesso e di dominio, per acquisire coscienza, per vivere il grande circolo degli eventi appieno, senza indugi, senza illudersi di poterli fare propri umiliandoli come si umilia una prostituta, senza che essi ci si oppongano, oggetti estranei, lasciandoci terribilmente vuoti, per tutto questo occorre pure una certa volontà!
D’altronde regolare le faccende di ordine pratico non si poneva come problema complicato ed irrisolvibile. Innanzi tutto bisognava occuparsi del padrone di casa, poi dei creditori (chissà perché, tutti ne hanno), del datore di lavoro e… di altra fauna del genere. Come ben si può vedere, questioni affatto affrontabili, seppur scoccianti.
Era altresì necessario fare in modo che le persone a me più vicine non avessero di che preoccuparsi. Spiegar loro, cioè, che la mia decisione non comportava per nulla una loro colpa; che loro avevano fatto tutto il possibile per me, ed anche parecchio di più; che non rientrava nelle mie intenzioni abbandonarli; che non correvo alcun pericolo, né dal punto di vista fisico né da quello morale; che, infine, non si doveva interpretare il mio gesto come un rifiuto od un abbandono del mondo: tutt’altro.
Il problema vero, struggente, si presentò nella sua piena necessità allorché mi ritrovai a dover decidere cosa portare con me. Ah, perfida, perversa selezione! E già, perché chiaramente qualcosa andava escluso. Se è peculiare della natura dell’uomo porsi dei fini, esso deve nondimeno avere dei limiti, non fosse altro che di capienza istantanea e simultanea, se non di comprensione. Mi fu subito chiaro che s’imponeva un metodo. In effetti, una scelta casuale ed indiscriminata avrebbe portato ineluttabilmente all’avventatezza ed, in seguito, al rammarico, al rimpianto, all’insoddisfazione. Posto questo, optai per una combinazione di esclusione ed inclusione. In un primo tempo avrei quindi escluso tutta una serie di categorie di cose che ritenevo superflue, per poi vagliare, all’interno di quelle rimaste, ciò che mi avrebbe accompagnato.
In primo luogo pensai di scartare il danaro. Infatti mi sembrava inutile averne appresso, giacché esso, lungi dall’incarnare il fine, non si rivelava indispensabile neanche nella sua schietta natura di mezzo. Invero, confidando in esso, sarei stato soggetto alla potestà della fortuna, del caso più o meno accidentale, soggiogando il mio essere a cause esterne. Peggio ancora, avrei attribuito a questa dipendenza derivante dalla mia debolezza un carattere universale, avrei cioè elevato il danaro a feticcio, cercandovi conforto per la mia vita appassita. Tramite esso avrei potuto raggiungere al massimo un sopravvivere privo di eccessive preoccupazioni e guai fisici, nel migliore dei casi piatto ed insignificante: nulla più. Ma la mia decisione contemplava per l’appunto il tentativo di evitare la banalità quotidiana, facendo del quotidiano un alcunché di sempre nuovo e mai banale, scontato. Già! Con danaro, questo compendio di tutto il desiderabile, avrei sicuramente potuto comperare ogni cosa, vendendo irrimediabilmente me stesso.
Così riflettendo, giunsi alla conclusione che scartando il danaro automaticamente dovevo scartare tutto ciò che si prestava ad un soddisfacimento dei miei bisogni e desideri implicante un crescente assoggettamento ad essi. Questo voleva dire rinunciare a provviste di viveri, a vestiario di ricambio, ad ogni genere di utensili, a comodità elettriche e elettroniche, a… Non che fosse mia intenzione non nutrirmi, non ripararmi dalle intemperie, non costruirmi un giaciglio, rinunziare alle umane potenzialità. Era tuttavia mio fermo proposito godere nella maniera più schietta possibile tutto ciò. Partendo dal semplice principio che non già la natura appartiene all’uomo, bensì quest’ultimo ad essa (quantunque esso sia non di rado figlio maledetto ed irriverente), avrei mangiato e bevuto incontrandomi con cielo e terra, non violentandoli, non sottomettendomi ad essi, ben consapevole del fatto che un pasto semplice e non ostentante vanagloriosa superiorità è quanto di più ameno e gustoso il nutrimento possa apportare. E chissà, oltre tutto avrei potuto aver l’occasione di riacquisire certe qualità, certe facoltà che l’uomo sembra lasciarsi sempre più sfuggire, come ad esempio capire che i frutti crescono sugli alberi e non nelle scatole dei supermercati, che sono le mucche a fornire il latte e non i cartoni che si conservano nel frigorifero, che essere autosufficienti non significa affatto guadagnare mensilmente quanto basta per pagare tutte le fatture. In fin dei conti Epicuro non era certo edonista quando sosteneva che, eliminando i sensi, non sarebbero più concepibili piacere e felicità: i sensi non vanno glorificati, né disprezzati. “Quando hai fame mangia, quando hai sete bevi”: questa massima del buddhismo zen mi rieccheggiava gentile nelle orecchie.
Ma allora cosa devo includere, pensai fra me e me, se praticamente ho già escluso tutto? Mi misi dunque a riflettere su ciò che non poteva essere disgiunto dalla decisione che finalmente avevo preso. Ciò senza cui essa avrebbe perso sostanza. Essere uomo veramente libero, scoprire ed immergersi nella propria natura, esistere nell’essenza (quale curiosa espressione!), riconciliarsi insomma col mondo, anzi, con l’universo: come è possibile?
Restai per un attimo come un bambino in un negozio di dolciumi. Poi pensai al mio indagare, stupirsi, fantasticare, riflettere; mi fu allora chiaro cosa sia speculare dell’umana condizione: il sapere. Certo! L’uomo sa, o meglio, sa di sapere. E l’uomo intelligente, sapendo di sapere, sa di non sapere.

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  1. fede 17 Maggio 2006 at 14:02

    Platone ha detto che la lettera scritta è muta…io voglio pensare quest’altra frase: L’amore non è che quella nuvola che non riusciamo a vedere lì in cielo ma che sentiamo addosso ovunque:e che ci permette di scrivere…
    non fateci caso…questo è quello che mi è venuto in mente vedendo questo quadro…e questa è la frase di un certo Domenico Palumbo… ha scritto il libro “Una lettera dal passato”…è stato alla Galassai Gutenberg a Napoli…speravo di trovarlo anche a Torino ma non c’era…perchè non lo prendete in considerazione? cmq volevo segnalarvi il suo blog…io l’ho trovato interessante
    unaletteradalpassato.blogspot.com

  2. Ivo Silvestro 19 Maggio 2006 at 19:04

    Platone è vissuto duemilacinquecento anni fa: il mondo era molto più piccolo di adesso e minori erano le persone interessanti. Scrivere era una attività fisicamente faticosa e la diffusione dei testi affidata al caso. Non c’erano la carta, non c’erano penne a sfera, non c’erano libri, non c’erano editori e librerie.
    Sarebbe ingenuo ridurre l’analisi platonica della scrittura a queste “circostanze storiche”, ma sarebbe anche ingenuo non prenderle in considerazione nel leggere, oggi, la sua condanna della scrittura.

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