Lunedì 26 marzo 2007 si è aperto a Roma il Consiglio Episcopale Permanente. Tra le varie attività, come l’approvazione di verbali e di ordini, i vescovi italiani hanno approvato una breve nota «a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto».
Sull’impianto generale del testo (disponibile su Kataweb, dal momento che la CEI offre solo un documento di word) non mi pronuncio: le riflessioni dei vescovi mi sembrano legittime, sta poi ai singoli decidere se seguirle, ignorarle o criticarle.
Un passaggio mi ha tuttavia colpito:
Queste riflessioni non pregiudicano il riconoscimento della dignità di ogni persona; a tutti confermiamo il nostro rispetto e la nostra sollecitudine pastorale. Vogliamo però ricordare che il diritto non esiste allo scopo di dare forma giuridica a qualsiasi tipo di convivenza o di fornire riconoscimenti ideologici: ha invece il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza.
Secondo la CEI, il diritto «ha il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza». Il problema è che con diritto, solitamente, si intende il «complesso di norme legislative o consuetudinarie che regolano i rapporti sociali» (De Mauro) oppure il «complesso di norme imposte con provvedimenti espressi o vigenti per consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee» (Devoto Oli).
I rapporti sociali, ossia tra le persone, non i le esigenze sociali che vanno al di là del privato. Anche perché, capovolgendo l’affermazione dei vescovi, gli individui hanno dei diritti al di là delle esigenze sociali, come effettivamente viene riconosciuto poco oltre:
Siamo consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili garanzie e tutele giuridiche per la persona che convive. A questa attenzione non siamo per principio contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare.
Se esiste il diritto individuale, non si capisce come possa il diritto riguardare unicamente le «esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza».
Non facciamo i maligni ad oltranza: evidentemente la CEI intendeva che il diritto pubblico riguarda le esigenze sociali, mentre quello privato si occupa invece dei diritti individuali.
Però il diritto di famiglia fa parte del diritto privato non di quello pubblico!
Evidentemente i vescovi hanno in mente un’altra distinzione, ma non si capisce bene quale: persino nel diritto canonico, alla voce “matrimonio”, non vi è traccia di esigenze sociali. Vi si legge invece una cosa curiosa: «tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento» (canone 1055, §2). Si potrebbe argomentare che, se una unione di fatto viene legalmente riconosciuta, diventa per questo un contratto matrimoniale e quindi, se i due sono cattolici, un sacramento. Si potrebbe argomentare, ma si è stabilito di non fare i maligni ad oltranza.