Massimo Adinolfi riflette su quello che, sbrigativamente, potremmo chiamare riduzionismo psichico. L’inizio della sua riflessione è un anonimo commento:
Ho sete, e ho davanti a me una Sprite e una Pepsi. Ci penso un attimo, allungo la mano e prendo la Pepsi. A che punto ho scelto? Mi pare: in un qualche istante tra il problema di decisione che mi sono posto e il gesto di prendere la Pepsi e lasciare la Sprite nel frigo.
Chiama questo istante “t”. Che è successo nell’istante “t”? Direi: si e’ verificato un certo evento fisico x nel mio cervello. Perché non dovrei dire che l’evento è x la mia scelta? Che *cosa* è la mia scelta, senno’?
Già: che cosa è la scelta, se non un certo evento cerebrale? Tuttavia su Psicocafé si legge:
Sottoponendo a risonanza magnetica funzionale volontari sottoposti a test di aritmetica è stato riscontrato che per risolvere un problema di addizione, i soggetti di madrelingua inglese mostrano la presenza di attività nell’area che sovrintende al linguaggio, mentre i soggetti di madrelingua cinese utilizzano regioni cerebrali più legate all’elaborazione delle informazioni visive, in accordo con la tipologia ideografica della loro lingua.
Il meccanismo proposto, ossia la identificazione del fenomeno psichico con un concomitante evento cerebrale, deve necessariamente valere anche qui. Questo comporta la non indifferente conseguenza che la matematica inglese è diversa da quella cinese.
Grazie.
Ciao Ivo. Mi permetto di dissentire, posso? 🙂
L’argomentazione che hai utilizzato non smentisce il fatto che il fenomeno psichico non sia altro che il concomitante evento cerebrale.
Probabilmente il legame dell’aritmetica con il linguaggio potrebbe trarre fondamento da una subvocalizzazione dell’operazione matematica.
In altre parole quando i soggetti fanno 2+2, subvocalizzerebbero un’affermazione del tipo “adesso prendo due unità e le aggiungo ad altre due unità e ottengo quattro”.
Questa subvocalizzazione attiva le aree del cervello che sovraintendono al linguaggio.
Vien da sè che in soggetti madrelingua cinese che hanno una scrittura e quindi una lingua ideografica si attivino “anche” aree della corteccia visiva.
Non sono dunque due matematiche ma un diverso modo di “manipolare” l’operazione matematica da un punto di vista linguistico.
Ciò non toglie che il fenomeno psichico in entrambe le culture è il prodotto di un concomitante evento cerebrale.
Grazie per l’interesse. 🙂
Definire tre righe “la mia argomentazione” è un po’ esagerato: diciamo che la mia provocazione non smentisce il riduzionismo. E sono tendenzialmente d’accordo: sarei perlomeno ingenuo se pensassi di confutare una tesi filosofica in tre righe!
Qui non sono d’accordo. Non nel senso che la subvocalizzazione è un errore (anche se ricorda un po’ le ipotesi ad hoc tipiche della pseudoscienza di popperiana memoria, però io a Popper preferisco Lakatoš, quindi mi tengo l’osservazione tra parentesi).
La mia controobiezione è semplice: perché togliere alla matematica la subvocalizzazione? Perché considerarla accessoria e superflua? Dopotutto, quello che noi comunemente chiamiamo “matematica” comprende anche la subvocalizzazione.
Essere il prodotto di comporta essere riducibile a? Il significato dell’espressione “risolvere un problema matematico” potrà mai risolversi nei concomitanti processi cerebrali?
La finale dei mondiali di calcio potrà mai ridursi, come significato, alle prestazioni muscolari dei calciatori?
Caro Ivo, in un post di totali 6 righe originali più due citazioni, post che, immagino, volesse esprimere un pensiero, tre righe sono un’argomentazione nel senso che sussumono il senso del post stesso, altrimenti che lo hai scritto a fare? Volevi dirci qualcosa con questo post e ho presunto che volessi dirci che “il fenomeno psichico non può essere ridotto a concomitante evento mentale”. Mi sbaglio?
Nessuno vuole “togliere” la subvocalizzazione alla matematica, sono stata io stessa a inserirla come ipotesi del perchè se faccio di conto mi si illumina la corteccia deputata al linguaggio. La subvocalizzazione è un processo psichico ed è un evento mentale misurabile e osservabile, associato all’altro evento mentale altrettanto misurabile e osservabile che è il far di conto.
In tutti i modi non è necessario ipotizzare un quid ulteriore rispetto all’evento mentale, non ne abbiamo bisogno.
Il “significato” di “risolvere un problema matematico” sta nel fatto che un cervello, a partire da regole apprese, produrrà un risultato atteso e lo farà attraverso specifici circuiti elettrici.
Di cos’altro abbiamo bisogno per spiegarlo?
L’esempio della finale del mondiale non è calzantissimo essendo l’argomento a un livello di complessità enormemente maggiore e nonostante questo le variabili in gioco potrebbero essere enumerate a un soddisfacente livello di approssimazione benchè numerosissime.
Perdona, forse sono io che non comprendo dove vuoi arrivare, ma la filosofia mi sembra talvolta l’inutile complicazione di questioni semplici.
Sì, volevo dire qualcosa con questo post. No, non volevo dire che lo psichico è irriducibile al fisico. Volevo semplicemente presentare una difficoltà del riduzionismo, difficoltà che il riduzionismo può comunque superare, come mostri con le tue obiezioni.
Quale è la mia opinione sul riduzionismo, la esporrò in un post nuovo nuovo nei prossimi giorni.
Riguardo la filosofia: inutile complicazione questioni semplici? Se fatta bene, dovrebbe semplificare le questioni complicate.
Comunque essere filosogi non è un obbligo, e non è neppure un obbligo affrontare questioni filosofiche: nessuno si offende se si tace sul riduzionismo, se si lascia dov’è il problema.
Cavolo.. sto rispondendo otto anni dopo.. 🙂 in ogni caso volevo dire che sono stati fatti degli studi su persone inglesi con pronunce delle vocali diverse. Hanno cioè preso un campione di persone che provenivano da luoghi in in cui in alcune parole le vocali erano pronunciate lunghe come in bath (pron baaath) e altre brevi (pron. bath), quindi hanno applicato dei dispositivi per registrare il movimento oculare durante la lettura silenziosa. Il risultato è stato che nelle persone che provenivano da luoghi in cui le vocali erano pronunciate “lunghe” (mi scuso per l’approssimazione ma spero si capisca) l’intervallo di tempo oculare era più lungo quando si posava su quelle parole rispetto all’altro campione, in cui le vocali eeano pronunciate brevi, un test che ha dimistrato come durante la lettura silenziosa le persone esaminate, anche quelle che dichiaravano di non farne uso e quelle che dicevano di non sapere, in realtà facevano uso della subvocalizzazione.