Victor Hugo; L’ultimo giorno di un condannato; SE, Milano, 2000
Nel 1829 venne pubblicato un libro, intitolato Le Dernier Jour d’un condamné, che narrava le ultime settimane di vita di un condannato alla pena capitale.
La prefazione lasciava al lettore la possibilità di scegliere: se considerare il testo autentica opera di un miserabile, oppure se credere che un sognatore, un filosofo o un poeta si sia lasciato prendere dall’idea degli ultimi giorni di un miserabile e l’abbia messa per iscritto.
Alcuni anni dopo, nel 1832, il libro venne ripubblicato con l’indicazione dell’autore, Victor Hugo, e con una nuova prefazione, nella quale si riconosce apertamente la natura del libro: un’opera di fantasia e una perorazione per l’abolizione della pena di morte.
La domanda che uno può porsi è: come può una perorazione venire condotta in forma di romanzo? Secondo la retorica classica, la perorazione è l’ultima parte dell’orazione, nella quale si riassumeva tutto il discorso e si cercava di commuovere gli ascoltatori. La commozione indubbiamente c’è, ma dov’è il riassunto delle argomentazioni?
Puntare unicamente sui sentimenti può essere controproducente, perché potrà sempre esserci un oratore più bravo, o semplicemente in grado di urlare più forte, che perorerà la causa avversa, raccontando la triste storia dei crimini commessi dal condannato.
Hugo è un sognatore, un poeta, ma anche, è proprio il caso di dirlo, un filosofo, e infatti il suo racconto contiene una potente argomentazione.
Le memorie del miserabile iniziano con la pronunciazione della condanna e proseguono con il carcere, l’incontro con gli altri detenuti, la speranza nella grazia, i tristi ricordi del suo passato, l’incontro con la figlia di pochi anni che non lo riconosce. A dominare il tutto è l’attesa, la lunga attesa del giorno dell’esecuzione.
In tutti questi eventi non vi è la minima traccia di Giustizia, ed è questo il potente argomento di Hugo: non c’è giustizia nella pena di morte, vi è odio, vendetta, umiliazione, terrore, ma non giustizia.
La pena di morte venne abolita, in Francia, soltanto nel 1981. 152 anni dopo la prima pubblicazione del testo di Victor Hugo.
vai così…
Penso la pena di morte dietro il velo (cmq barbaro) hammurabico/semitico (“occhio per occhio”: crudeltà e ricerca di una simmetria tra delitti e pene) abbia una sostanza rituale (si vedano le ultime condanne USA di giovanissimi, o di anziani handicappati o di redenti agitatori sociali) nel senso esorcistico che Girard dava al termine.
La pena di morte è sicuramente un rito.
Ma cosa non è un rito? La nostra vita è intessuta di riti, nel senso sacro e profano del termine. Magari approfondirò il tema in un post.
Non conosco il pensiero di Girard, ma il rito no è solo esorcistico (e non solo in riferimento alla violenza).