Il mondo è uno solo, così come uno solo è l’uomo che lo abita. Di fronte a questa singolarità di uomo e mondo, vi è l’incredibile pluralità delle relazioni che nascono e si sviluppano: il mondo è uno, ma molti sono i modi di abitarlo.
Scienza e filosofia sono due grandi famiglie di queste relazioni tra uomo e mondo. A prima vista, la scienza si occupa del reale, mentre la filosofia non si sa bene cosa studi, ma sicuramente non il reale: forse l’immaginario, forse il pensiero.
Henri Bergson fu un importante filosofo del novecento che, con notevole chiarezza espositiva, capovolse questa opinione: tra fisica e metafisica, è la seconda ad occuparsi del reale, mentre la prima si occupa di un immaginario molto particolare che è il concepito.
Forte di questo suo punto di vista, non esita, in Durata e simultaneità (trad. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina editore, Milano 2004), ad affrontare la fisica, la scienza regina della prima metà del novecento e in particolare il suo fiore all’occhiello, la teoria della relatività di Einstein.
Se leggiamo in questa chiave il testo bergsoniano, il nucleo problematico è l’interrogativo “Che cosa è la realtà? Cosa siamo disposti ad accettare come reale e cosa come irreale, fittizio?”.
Per le ricerche del filosofo, ad essere importante è il concreto, il percepibile pieno di qualità. Lo scienziato, o almeno il fisico, privilegerà invece il misurabile, cercherà grandezze da porre in relazione.
Ma per il filosofo e per lo scienziato rimane comunque indissolubile il richiamo all’esperibile, ad una coscienza in grado di percepire.
Prendiamo il caso del tempo, l’oggetto privilegiato di queste pagine bergsoniane.
Il tempo reale non può che essere successione, ossia un prima che si da insieme a un dopo (se i due momenti sono isolati, se vi è un prima oppure un dopo, non vi è ne’ successione ne’ tempo), e quindi vi deve essere una qualche misura di coscienza che possa vivere il prima e il dopo.
La teoria della relatività introduce dei tempi che non sono e non possono percepiti, sopprime cioè la coscienza. I tempi multipli introdotti dalla relatività sono, secondo l’acuta analisi di Bergson, tempi irreali, immaginari, necessari allo scienziato che voglia comprendere e descrivere l’universo nella sua totalità tramite formule matematiche, ma completamente slegati da qualsiasi esperienza umana, attuale o possibile.
Se non si ha ben presenta la irrealtà di questi tempi multipli, la teoria della relatività comporta tutta una serie di paradossi che la rendono difficile e misteriosa. Paradossi che invece si dissolvono appena si tiene conto che i tempi della relatività non sono tempi esperibili ma sono concepibili.
È curiosamente compito del filosofo, e non del fisico, scoprire e divulgare questo importante aspetto dei tempi della relatività. Ecco che a studiare la realtà è la filosofia, non la scienza, che si è scoperto occuparsi non del reale esperibile, ma del concepibile, del descrivibile quantitativamente.
Quanto è solida questa ricostruzione di Bergson dei rapporti tra scienza e filosofia?
Certamente lo scienziato non sarà da essa soddisfatto: evidentemente, ciò che per lui è reale è, per il filosofo, irreale, e viceversa. Il filosofo e lo scienziato vivono pratiche diverse, e il richiamo bergsoniano all’esperienza non è purtroppo sufficiente a saldare le due visioni su un terreno comune. L’esperienza di tutti i giorni, il tanto citato senso comune, la realtà come viene percepita nel quotidiano: i discorsi dello scienziato sono lontani da tutto questo quanto quelli del filosofo.
Come si diceva all’inizio, molti sono i modi di abitare questo mondo. L’importante è sapere che, quando lo si abita da fisici, si dicono di esso cose diverse da quelle dette quando lo si abita da metafisici, e soprattutto che quando lo si abita da semplici cittadini non si dice nulla sul mondo, appunto perché non lo si dice, lo si abita.