Liberté, égalité, fraternité: è il motto della rivoluzione francese e da questa straordinaria esperienza politica, volenti o nolenti, derivano tutti i regimi democratici. Libertà, uguaglianza e fraternità: siamo tutti liberi, siamo tutti uguali e siamo tutti fratelli.
Dei tre valori, il primo è la libertà. È difficile stabilire se il primato sia anche d’importanza; sicuramente la libertà è la prima ad essere in pericolo, quando la democrazia inizia a degenerare in qualcosa di diverso e inquietante.
Occorre pertanto prestare la massima attenzione alla libertà, ovviamente senza trascurare l’uguaglianza e la fraternità.
La libertà, intesa come un bene o valore individuale, non può tuttavia essere assoluta, altrimenti si avrebbe l’anarchia: il comune vivere civile impone dei limiti, delle restrizioni affinché il mio libero agire non sia di ostacolo all’altrui libero agire. Per dirla con un altro motto: la mia libertà finisce dove inizia la tua.
Il problema che si pone è: dove si situa questo misterioso confine che separa le varie libertà? In altre parole: quanto una limitazione della libertà individuale è a salvaguardia della libertà sociale e collettiva e quando, invece, la danneggia?
Domanda irrinunciabile ma anche terribilmente difficile, per la quale una risposta semplice e definitiva non esiste, e anche ad accontentarsi di una buona approssimazione si rischia di rimanere delusi.
Un concetto guida che può essere utile almeno per intuire in che direzione cercare, è l’idea di equilibrio e di armonia. Armonia innanzitutto tra i tre valori citati all’inizio: gli uomini non sono solo liberi, ma sono anche uguali (e quindi occorre opporsi alle limitazioni che introducono disuguaglianza) e fratelli (e quindi occorre opporsi anche alle limitazioni che separano, che producono odio).
Ma armonia ed equilibrio anche tra individuo e collettività (equilibrio, quest’ultimo, ancora più difficile del primo, perché da una parte vi è qualcosa di concreto e particolare, mentre dall’altra qualcosa di astratto e generale).
L’individuo ha i suoi spazi, che non coinvolgono gli altri nel loro vivere comune, e pertanto la comunità non deve e non può interferire. Le opinioni fanno indubbiamente parte uno di questi spazi: ognuno può pensare quello che vuole, credere a qualsiasi opinione e divulgare qualsiasi ragionamento, per quanto assurdo, eterodosso o ignobile possa essere.
Anzi: la società dovrebbe punire, e severamente, chi impedisce, in qualsiasi modo, la libera espressione, poiché deve tutelare il libero diffondersi delle idee, di tutte le idee, sul quale si fonda la democrazia.
La selezione fra le opinione errate e quelle corrette avverrà successivamente: idee assurde o ignobili avranno scarso successo, e nel lungo periodo (in the long run, scriveva Peirce) maggiore successo significa più vicino alla verità. Ma questo è possibile solo se, nel breve periodo, non si sono poste censure preventive.
I confini, occorre tenerlo sempre presente, non sono mai così semplici come può sembrare inizialmente.
Le opinioni hanno una forza: quella di creare convincimento nelle persone. Una persona agisce in conformità alle proprie convinzioni. In altre parole, le opinioni possono generare azioni, e queste azioni possono, eventualmente, violare la libertà altrui. Chi si fa portavoce di alcune idee può essere considerato responsabile delle azioni commesse da altre persone in base a queste idee?
Anche facendo ricorso al buon senso, ci si ritrova un po’ confusi. Chi sostiene, davanti a una folla inferocita ed esagitata, la colpevolezza di una certa persona e la necessità di punirla al più presto, è agevolmente considerabile responsabile del linciaggio che probabilmente seguirà al suo discorso. Viceversa chi sostiene una opinione generica in modo pacato, rivolgendosi a gente adulta e tranquilla, come può essere dirsi colpevole di eventuali illeciti commessi da chi ha seguito i suoi ragionamenti?
Tra i due poli, una moltitudine di sfumature di grigio, di situazioni ambigue non semplici da giudicare.
Come unica consolazione, due piccole certezze: meglio non punire un colpevole che punire un innocente e, soprattutto, occorre giudicare con serenità. Serenità che si raggiunge solo se non si ha paura, se non si è convinti di vivere in una situazione di emergenza: diffidare di chi predica la paura, perché, magari in buona fede, è un probabile nemico della libertà.
“Chi si fa portavoce di alcune idee può essere considerato responsabile delle azioni commesse da altre persone in base a queste idee?
Chi sostiene, davanti a una folla inferocita ed esagitata, la colpevolezza di una certa persona e la necessità di punirla al più presto, è agevolmente considerabile responsabile del linciaggio che probabilmente seguirà al suo discorso.”
Per nulla. Chi sostiene queste idee non è responsabile di quello che gli altri fanno.
E’ responsabile di non avere impedito che lo facciano: l’incitare alla violenza non è in realtà un’azione diretta ma un omissione di soccorso (verbale).
Non sono d’accordo.
Parlare è sempre un’azione, ma in forme diverse.
Come diceva Mill- più o meno- se dico su un giornale che i panettieri rialzano il prezzo del pane speculando su un monopolio d’approviggionamenti, e sono “ladri” è un conto.
Se salgo su un’auto e comincio a dire alla folla già inferocita: “I panettieri sono ladri! Ci dissanguano! Sono assassini!”, sono ampiamente responsabile di quello che accadrà dopo.
Anche se uso parole più misurate, come “Vanno puniti!”, poco cambia: un tribunale punisce con il carcere, ma dire punizione dinnanzi ad una folla ha altro significato…
E’ chiaro che gli atti linguistici qui sono di tipo diverso: affermare in un caso, incitare nell’altro.
L’uno ha un atto espositivo e grosso modo non ha fini ulteriori oltre alla comunicazione; l’altro è un atto esercitivo e vuole muovere all’azione.
Se c’è un fine, c’è un’azione e le conseguenze sono prevedibili, che ragione c’è per dubitare che ci sia anche responsabilità?
Che i contesti siano estremamente significativi risulta chiaro con un esempio concreto.
In Germania si doveva decidere se far sfilare il NPD davanti alla porta di Brandeburgo nell’anniversario del bombardamento di Dresda, due o tre anni fa.
Ora, i neonazisti avevano diritto d’espressione e di manifestazione.
Tuttavia, questo non significa che potessero farlo proprio davanti al simbolo della nuova germania: sarebbe stato un insulto alla democrazia.
Alla fine non se ne fece nulla, ma il divieto di sfilare davanti alla porta era ben motivato.
E notare bene: non era una distinzione tra uso della libertà e un suo abuso, come fosse un fatto di grado.
Si affermò che erano due fattispecie distinte: l’espressione di idee politiche e l’aggressione ideologica e simbolica.
Il discorso su verbale e omissione verbale mi pare poi poco convincente.
Le persone possono sentire un discorso di aizzamento- e diventano folla.
Ma una volta divenuti folla, non sentono più nulla, tanto meno parole di buon senso.
Poniamo che contemporaneamente due persone arringhino la folla assembrata con aria minacciosa, e uno eccita la loro ira, l’altro cercan di portarli alla ragione: è facile che prevalga il primo.
Anzi, anche se cerca di farli ragionare senza che vi sia un avvocato della violenza dal lato opposto, è improbabile che ottenga qualcosa: la folla ha già rinunciato al raziocinio per il solo fatto di essere lì.
Pensa ad un uomo che butti un fiammifero acceso in un enorme deposito di benzina.
Un’altro dalla parte opposta del deposito, per prevenirlo, tira fuori una bottiglietta d’acqua e la rovescia sulla benzina: che cosa ha ottenuto?
Sarebbe omissione di qualcosa se non l’avesse fatto?
ciao, Eno
ERRATA CORRIGE
“Il discorso su azione verbale e omissione verbale…”
Concordo con quanto scritto da eno, per quanto, e forse era questo il senso del commento di Kirbmarc, è ovvio che non considererei colpevole alla stessa maniera chi arringa una folla inferocita e chi fornisce loro armi per assaltare i famosi panettieri (e forse, visti gli aumenti di pane e pasta di cui tutti parlano, sceglierei altri esempi che non si sa mai…)
“Se c’è un fine, c’è un’azione e le conseguenze sono prevedibili, che ragione c’è per dubitare che ci sia anche responsabilità?”
Probabilmente mi sono espresso male (non ho formazione filosofica) e concordo in pieno sulla differenza di contesto, ma il concetto di responsabilità presuppone che chi arringa la folla ordini (o inciti) direttamente al massacro (e in ogni caso si tratta di una responsabilità relativa,da “mandante” in quanto, come ho già detto, la sua non è una azione diretta).
Se l’arringatore in questione si limita a sostenere la sua idea, senza ordinarne direttamente l’esecuzione pratica, lo si può accusare di imprudenza,non certo di responsabilità o corresponsabilità, anche se ottenere l’azione fosse stato il suo scopo: non leggendo il pensiero non possiamo saperlo.
Kirbmarc: il tuo discorso è giusto. Il problema è che a volte anche la semplice espressione di una idea si può tradurre in un ordine. È un esempio estremo, ma pensa al mafioso che dice ai suoi uomini “se quello lì sparisse dalla circolazione sarebbe meglio per tutti”: è un punto di vista o un ordine?
La differenza non sta certo (solo) nelle parole che uno dice, esattamente come la differenza tra omicidio volontario e colposo non sta solo nelle azioni, e per quanto sia impossibile leggere il pensiero, si distinguono le due azioni anche senza convocare telepati in aula 😉
La differenza, a mio parere, è che nel caso di un omicidio, per distinguere fra volontario e colposo, hai degli elementi materiali a disposizione per determinare (sempre nei limiti del ragionevole dubbio,mai “assolutamente”) la premeditazione in quanto l’azione in ogni caso è stata compiuta. Nel caso delle opinioni espresse, non ne hai, in quanto tutto ciò che hai sono le parole, non (ad esempio) un insieme di scelte (come comprare un arma, appostarsi etc) che hanno condotto ad un risultato.
“È un esempio estremo, ma pensa al mafioso che dice ai suoi uomini “se quello lì sparisse dalla circolazione sarebbe meglio per tutti”: è un punto di vista o un ordine?”
Ti rispondo, provocatoriamente, che se questa frase fosse l’unico elemento per attestare la responsabilità di un mafioso non potremmo condannarlo. Sono tutta un’altra serie di elementi (come il fatto di avere degli uomini armati al proprio servizio, il “codice” stabilito fra il mafioso e gli uomini di servizio, etc.) a stabilirne la responsabilità.
Diverso è il fatto di un agitatore che urla “Facciamola pagare a quei maledetti” (per esempio): come puoi sapere che la sua intenzione fosse un ordine e non un attimo di frenesia idiota o di imprudente “coerenza” con le sue idee precedenti?
Non è detto che chi arringa la folla sia estraneo e “piloti” gli umori della folla, e non ne sia invece “pilotato”. In assenza di ALTRI elementi (come potrebbe essere, as esempio , la scoperta di un piano poltico o economico o d’altro genere dietro alle sue dichiarazioni) , non si può ritenerlo responsabile.
Sia chiaro: nonostante io sia un “rompiscatole” di natura, non faccio questo discorso per puro spirito di critica nei tuoi confronti: il problema è che muovendo dalla tua concezione della responsabilità delle opinioni, un dittatore avrebbe gioco facile a sostenere di non entrare nelle vite private dei cittadini, nè di ledere la loro libertà di opinione, ma solo di tendere al bene comune “limitando” le idee che possono portare a “scontri” e “divisioni”.
Inoltre :
“La selezione fra le opinione errate e quelle corrette avverrà successivamente: idee assurde o ignobili avranno scarso successo, e nel lungo periodo (in the long run, scriveva Peirce) maggiore successo significa più vicino alla verità”
Questo non è vero: pensa all’astrologia, assurda ma sempre popolare e largamente riconosciuta, per il semplice fatto che appaga un desiderio.
Già, un dittatore potrebbe sfruttare simili leggi per proibire idee scomode.
Però qualcuno potrebbe approfittare della mancanza di simili leggi per organizzare, impunemente, un colpo di stato o almeno forzare la mano ad alcune leggi…
Direi che entrambe sono situazioni non proprio gradevoli da evitare. Per questo concludevo (più di due anni fa!) affidandomi alla serenità di giudizio.
Non penso.
Tu hai in mente l’ordine del sergente: “Andate a destra!”.
Esplicito e diretto.
La responsabilità del sergente è dimostrabile e certa, perché si esprime all’interno di un certo codice prefissato.
Questo non accade mai nella vita quotidiana: noi usiamo giudizi generali per dare consigli, consigli per dare ordini, domande per ingiunzioni etc.
Ma non solo: anche se noi proferiamo frasi in forma “esplicita”, non è detto che intendiamo ciò che diciamo.
“Dovete ammazzarli di botte quei bastardi” è un’incitazione all’omicidio? O forse una espressione da taverna per indicare rabbia?
E “Prometto che vi faccio secchi” ?
C’è cmnq una porzione di incertezza.
Tu hai in mente la responsabilità all’interno di una istituzione, dove esiste uno statuto e un preciso codice.
E’ la codificazione e non la “direttezza” a fare la differenza.
Ma la società non è una istituzione: l’incertezza è una sua componente essenziale. Del resto, come potrebbe essere qualcosa in evoluzione se non fosse “tarata” dall’imprecisione?
Questo non toglie che sono responsabile delle mie azioni anche quando smetto i panni di studente, attivista politico, dipendente pubblico, membro di un club… etc. cioè quegli ambiti dove la mia interazione è codificata.
Qui, mi pare, c’è l’equivoco di fondo.
Una cosa è la conoscenza della responsabilità- da cui diende l’eventuale condanna- ed un’altra la sua esistenza.
Questa differenza non c’è in ambito legale.
Per la legge, la responsabilità ha sempre valori di default ed è sempre possibile conoscerla. Se sei un soldato a guardia di una santabarbara, vale la responsabilità oggettiva: se qualcuno vi ruba, sei responsabile a meno di non provare che non è colpa tua.
Per un civile che è accusato di furto o di omissione di soccorso, vale l’opposto: è innocente fino a prova contraria.
Questo non vale in etica: se io compio un’azione, come gettare un sasso che per mia disattenzione uccide qualcuno, sono responsabile o non responsabile, ma senza presunzioni di colpa o innocenza.
Potrà poi anche esserci un certo dubbio nel accertare la mia responsabilità, anzi! io stesso potrò non sapere mai se era colpa mia o no.
Ma l’incertezza conoscitiva non sfiora la responsabilità.
Ammetto tranquillamente che non è facile decidere se chi grida un slogan in una piazza è responsabile del gesto violento che ad esso si ispira.
E cmnq è una responsabilità assai diversa da quella dell’esecutore materiale: è più sfumata, ma anche più vasta. L’atto materiale è singolo e diretto, lo slogan è indiretto ma può ispirare infinite attuazioni del gesto.
Ma una responsabilità in questi casi esiste, eccome.
ciao, Eno!