Re Lear, dopo aver abdicato in favore delle figlie Regan e Goneril, è ospite di quest’ultima. Nonostante abbia mantenuto il titolo di re, non ha più alcuna autorità, e Osvaldo, servo di Goneril, gli manca di rispetto.
Kent, fedele servitore di Lear, interviene in favore del suo re stendendo con uno scambetto Osvaldo e scacciandolo con le seguenti parole: Come, sir, arise, away! I’ll teach you differences: away, away!
Ti insegnerò le differenze, ti farò capire quello che distingue un servo da un re (la traduzione italiana di Goffredo Raponi riporta O ch’io v’insegno a stare al vostro posto).
Conoscere le differenze è dunque essenziale per comportarsi rettamente e per evitare che, prima o poi, qualcuno provi ad insegnarle in malo modo.
Dimostrare l’esistenza di Dio significa ignorare le differenze, come già scritto. Ma le differenze non insegnano soltanto l’insensatezza di ogni dimostrare che supera la logica (come per Dio, ma anche per la giustizia e il progresso). Le differenze, infatti, insegnano che nessun discorso logico e razionale ha significato, in questi casi.
Postulare l’esistenza di Dio e costruire sopra questo postulato un’etica è operazione due volte folle. Postulare è meno compromettente che dimostrare, ma è comunque un’operazione logica, tragicamente razionale e inutile. Anche la costruzione di un’etica è assurda: si ha a che fare con i concetti di giusto e di buono, non con dei teoremi.
Parlare, discutere di etica, come di teologia e di estetica, è possibile e raccomandabile. Ma non può essere un discorso impostato come un testo di logica: agendo così, si ignorare le differenze.
Sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio concordo, anche perché proprio su questo tema ho scritto molto, in particolare contro l’ateismo. Su ciò che segue invece e naturalmente dissento in modo radicale. Anche perché io non ignoro affatto la differenza, visto che ho preso le mosse dalla sua decostruzione (porto avanti da tempo questo discorso sul mio blog): logica è infatti la necessità del postulato, dalla quale deriva il postulato nel suo oggettivo predicare “cosa”. Apodittica (in senso vizioso) è invece proprio la differenza: un pregiudizio ermeneutico che fonda la logica (ermeneutica a sua volta) e, a seguire, la presunta necessità delle verità contingenti che ne derivano.
D’altra parte, il seguito del mio discorso, con la “rivelazione” delle strutture assiomatiche dell’etica, mostrerà chiaramente di ri-comprendere l’ermeneutica stessa, restituita alla purezza della sua “logica” moralità.
Grazie per la lettura,
Bernardo
Più ti leggo, più mi convinco che parliamo due lingue diverse. Questo chiaramente non ci impedisce di essere sostanzialmente d’accordo su alcuni temi (vedi qui e qui).
Credo che il problema di fondo sia: da dove iniziare il discorso filosofico? A che punto lo scavare alla ricerca di fondamenta soddisfacenti si arresta?
Io temo di iniziare da una nebula non organizzata di discorsi, e di procedere cercando somiglianze e divergenze.
Già che ci sono, mi scuso se il testo poteva apparire irriverente: non mi riconosco in Kent e nel suo sgambetto, e ovviamente non intendo dare dell’impertinente Osvaldo a nessuno. Mi sono lasciato trasportare dalla storia e dalla bellissima espressione di Shakespeare.
Ma figurati. Mi offendono gli stupidi, non coloro che, consapevolmente, non la pensano come me. E, a parte tutto, io adoro Shakespeare. 😉
Bernardo