L’oscurità nasconde: non sappiamo cosa c’è all’interno di una stanza buia. Qualsiasi cosa si trovi al suo interno, non viene vista, non è possibile conoscerla. Ma basta accendere la luce, illuminare il locale, perché tutto risulti chiaro e comprensibile.
Questo semplice evento è forse la migliore illustrazione della potente e diffusa metafora della luce come conoscenza contrapposta all’oscurità come ignoranza.
Platone è forse il primo ad utilizzare questa potente immagine evocativa: nel mito della caverna (Repubblica, libro VII), la fonte della conoscenza è appunto la luce, la brillante e purtroppo lontana luce del fuoco. Senza questa luce, che è l’idea del bene, gli uomini incatenati vivrebbero nell’oscurità completa, non vedrebbero e non conoscerebbero nulla; grazie ad essa vedono e conoscono, anche se, per colpa delle catene, la loro vista è limitata alle ombre, insoddisfacente via di mezzo tra la luce diretta e l’oscurità totale.
Dall’idea del bene a Dio il passo è, tutto sommato, breve: qualche secolo dopo Platone, San Giovanni scriverà che “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 4-5).
Agostino si spingerà naturalmente oltre: nei Soliloqui scriverà “o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile”.
L’illuminismo si impadronirà di questa metafora, capovolgendone il significato. La luce di Agostino diviene, infatti, oscurità da rischiarare non tramite Dio, ma con la ragione, vero e proprio lume naturale.
La conoscenza non è più percepita come un dono da accogliere, ma il risultato di un lavoro: come scriverà Kant nel 1784 (Risposta alla domanda: Che cosa è l’Illuminismo?) “abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.
Nelle pagine di Schopenhauer, la metafora cambierà ancora una volta significato: Ne Il mondo come volontà e rappresentazione (Libro I, §8) si legge: “Come dalla luce diretta del sole si passa a quella riflessa della luna, così ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva, immediata, che si afferma e si garantisce da sé, alla riflessione, ai concetti astratti e discorsivi della ragione”.
La luce, la fonte della conoscenza, è ancora umana, ma non è il ragionamento astratto, bensì la rappresentazione intuitiva, la percezione.
Basta accendere la luce per dissipare le tenebre, ma non è chiaro dove cercare l’interruttore.
Forse il contributo migliore, per districarsi in questa faccenda, è dato da Mendelssohn, con la sua seconda sinfonia, intitolata Lobgesang (Canto di Lode). Il testo è in buona parte dedicato alla metafora della luce e delle tenebre, del giorno e della notte: “Hüter ist die Nacht bald hin?” (Guardiano, finirà presto la notte?) chiede il tenore; e alla fine la soprano risponde “Die Nacht ist vergangen!” (La notte è trascorsa!).
La sinfonia è stata eseguita per la prima volta a Lipsia nel 1840, in occasione dei quattrocento anni dell’invenzione della stampa da parte di Gutenberg.
La luce è forse la possibilità di leggere, di studiare e di discutere.
Forse è la dissipazione delle tenebre l’illusione, perché se la luce nella sua oggettività fisica rende visibile (impressiona la retina con qualcosa che il linguaggio è in grado di nominare), non altrettanto capita allorché ad aprirsi è il campo delle metafore. La metafora della luce non cancella quella dell’oscurità ma l’affianca, stabilisce una semplice antitesi. Ecco perché, forse, il più preciso rimane San Giovanni: “la luce risplende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta”.
Bernardo
Anche Platone è molto preciso, in proposito: l’ombra è il convivere insieme di luce e tenebra, in quanto non è completamente né l’una né l’altra.
E lo stesso vale per Schopenhauer: la luce della luna non è come quella del sole, ma comunque un po’ ci si vede.
La luce non scaccia mai del tutto l’ombra, la conoscenza lascia sempre aperta un po’ di ignoranza!
Il discorso avrebbe probabilmente meritato maggiore approfondimento. Ad esempio sul termine teoretico, che è relativo alla visione e non, ad esempio, al tatto o all’udito. Magari un giono ci tornerò.