L’ultima parola della scienza

L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente su [tema oggetto di disinformazione] la lasciamo alla scienza. A lui.

Valentia Petrini, Non chiamatele fake news, Chiarelettere 2020

Sto leggendo un po’ di libri sulle “fake news”, e tra di questi c’è anche quello della giornalista Valentina Petrini. Dal punto di vista teorico è relativamente povero, ma è un’interessante testimonianza di come una giornalista che crede nel valore dei fatti affronti professionalmente e personalmente la disinformazione e la polarizzazione. Insomma, non ci si sofferma più di tanto su cosa siano le fake news, sulle differenze rispetto a fenomeni antichi come la propaganda, sui meccanismi di diffusione e sugli effettivi effetti, ma almeno non ci si limita a dare la colpa ai social media dal momento che, si legge a un certo punto, “la lotta contro la disinformazione sarebbe monca se non allargassimo il dibattito a tutta la macchina dell’informazione”.

Tuttavia è un altro il passaggio che più mi ha colpito, purtroppo in negativo, ed è quello che troviamo citato all’inizio di questo testo e che introduce l’intervista a un esperto. Ho omesso sia il nome dell’esperto, sia il tema di cui si discute perché mi interessa il modo di ragionare, non il caso specifico che potrebbe essere l’efficacia dei vaccini, il riscaldamento globale, le scie chimiche, l’assassinio di Kennedy o lo sbarco sulla Luna.

Abbiamo un esperto del tema e certamente quello che dice è importante e merita, nel dibattito pubblico, uno spazio diverso da quello di una persona con minori competenze sul tema. Certo, qui sarebbe importante capire come, immaginando di essere a nostra volta persone “con minori competenze sul tema”, possiamo valutare le competenze di un esperto o meglio ancora di due esperti o sedicenti tali che si contraddicono.

Il problema è tuttavia un altro: Valentina Petrini introduce l’intervista con le parole citate all’inizio. “L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente […] la lasciamo alla scienza. A lui”. Perché queste parole non mi convincono? Di per sé si dice semplicemente la scelta di chiudere il capitolo con alcuni punti fermi sostenuti da un ricercatore esperto del tema. Tuttavia le parole sono secondo me sbagliate. L’ultima parola: dopo non c’è più spazio neanche per domande? Sappiamo certamente: di che tipo di certezza stiamo parlando? È certo come è certo che 2+2=4, come il fatto che la Terra è rotonda, come è certo che se mangio cibo grasso mi verrà un infarto? La scienza: esiste una cosa che possiamo definire “la scienza”, e parlare come tale, o abbiamo una pluralità di discipline e ricercatori?

L’esperto poi fa bene il suo lavoro di esperto: riassume quello che si sa, nota che al momento c’è un’ipotesi accettata da quasi tutti (e si capisce che la certezza è in realtà limitata) e che chi sostiene altre tesi non ha prove solide o addirittura porta prove false. Capisco che di fronte a corbellerie e dibattiti sterili si sia tentati di presentarla come “l’ultima parola della scienza”, ma forse è una tentazione alla quale varrebbe la pena resistere.

2 commenti su “L’ultima parola della scienza

  1. A me urta molto l’ “A lui”. Un esperto è come una rondine: non fa scienza e non fa primavera. Affidarsi all’esperto presentandolo così nasconde l’eterno problema dell’oracolo rivelatore.

  2. Verissimo: è un aspetto che non ho considerato perché in questo caso l’esperto più che un oracolo fa da tramite e riporta quello che è il consenso scientifico. Ma appunto non ha molto senso presentare “la scienca” personificandola in un singolo interlocutore

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