Fabrizio Gatti, giornalista de L’espresso, racconta la storia di un gruppo di immigrati, alcuni clandestini, uno con il permesso di soggiorno scaduto, che si trova nella curiosa situazione di non poter intentare causa contro l’ex-datore di lavoro per venire pagato. Secondo il giudice, «il clandestino che si trova illegalmente in Italia non può invocare la tutela giudiziaria italiana».
Non so quanto il resoconto dell’accaduto e soprattutto della sentenza, sia fedele. Ignoro se quella del giudice è una forzatura oppure se davvero «l’articolo 75 [del codice di procedura civile] esclude le persone che si trovano illegittimamente in Italia dall’esercitare processualmente i diritti ivi pretesi».
È comunque interessante notare che, in base alla definizione di persona qui più volte discussa, i clandestini non sono delle persone. Se l’essere una persona dipende dalle relazioni con gli altri e, soprattutto, dipende dal complicato gioco tra diritti e doveri nel quale ci si ritrova a condurre la propria vita, è chiaro che un clandestino, se è vero che non può invocare alcuna tutela giudiziaria, è sì un uomo, ma non una persona: dal gioco dei diritti e dei doveri è escluso.
Il clandestino si ritrova nella curiosa situazione di poter svolgere tutte le azioni tipiche di un essere umano, ma di avere forti limitazioni nelle azioni tipiche delle persone: può camminare, mangiare, parlare e, soprattutto, può lavorare, ma non può pretendere di farsi pagare, non può rivolgersi a un tribunale e così via.
Per certi versi è comprensibile che sia così: un clandestino, per definizione, giuridicamente non esiste. Il problema è che, se uno può agire solo come essere umano e non come persona, a questo punto si arrangia come può. Il datore di lavoro non mi paga il lavoro svolto? Io gli rubo la macchina e la rivendo. Anzi, a questo punto rubo la macchina a qualcun altro, con il ricavato mi metto a spacciare cocaina e che vadano al diavolo tutti quanti, tanto non esisto.