L’avvocato Gianfranco Amato si interroga sui Muslim Arbitration Tribunal con un articolo dal significativo titolo «La Gran Bretagna discrimina i cristiani e si affida ai tribunali islamici».
Titolo efficace, anche se leggermente fuorviante (come ogni titolo rischia di essere, del resto).
Non è la Gran Bretagna ad affidarsi ai tribunali islamici, ma i singoli cittadini che hanno la possibilità di rivolgersi a uno di questi Muslin Arbitration Tribunal per risolvere alcuni problemi che, come giustamente nota Amato, riguardano «materie che sono, comunque, lasciate alla libera disponibilità delle parti». Una forma di arbitrato, che non prevale sulle leggi già esistenti e vincola le parti solo se queste sono d’accordo.
Un articolo del Guardian del 2008 chiarisce bene questo aspetto:
It follows that a dispute may be resolved by a sharia court, provided that the parties agree and that its procedures are fair. But this does not give sharia courts the power to resolve questions of personal status.
Ne consegue che una controversia può essere risolta da una corte islamica, a condizione che le parti siano d’accordo e che le sue procedure siano eque. Ma questo non dà ai tribunali islamici il potere di risolvere questioni di status personale [come il divorzio].
I tribunali islamici possono ignorare la legge solo se questa non è vincolante (il che è un po’ come dire che non possono ignorare la legge).
Alcune preoccupazioni di Amato sono quindi esagerate: non vi è una sottomissione delle leggi dello stato alla legge islamica, ma il contrario – anche se, pare di capire, non si insiste molto sulla sottomissione della sharia alle leggi dello stato.
Amato ha comunque ragione nel sollevare il problema della condizione femminile. È probabile che queste corti, pur senza violare la legge, decidano in maniera non equa. Un simile problema, in teoria, non potrebbe sollevarsi perché, in caso di decisioni sistematicamente sfavorevoli verso le donne, queste semplicemente non accetterebbero di lasciarsi giudicare da un Muslim Arbitration Tribunal. In pratica, è molto probabile che una donna si veda costretta, dai parenti di sesso maschile o dal contesto sociale, ad accettare una simile autorità, pur non essendo legalmente obbligata a farlo. È forse questa l’accusa più grave che si può muovere al sistema dei Muslim Arbitration Tribunal: la rinuncia al (difficile, forse impossibile) compito di tutelare le parti deboli.
La “privatizzazione della giustizia” mi piace. Si puo’ dire che ne sia un fan. D’ altro canto capisco le preoccupazioni e mi chiedo quale possa essere un passo intermedio. Si potrebbe stabilire una maggiorazione dei prezzi mediante extra-tassazione verso chi si serve del Muslin Arbitration Tribunal per certe cause ritenute delicate (es rapporti uomo-donna). Oppure la blind defence: una causa su 10 passa nelle mani del “difensore cieco” delle donne che decide in modo indipendente il tribunale a cui rivolgersi. Insomma: tra il proibito e il gratuito c’ è sempre, come sempre, la provvidenziale via di mezzo del “costoso”.
@broncobilly: Interessante il “blind defence”, anche se temo di non aver capito bene come funziona: una causa su 10 di quelle affidate a un MAT viene riassegnata a un altro tribunale o c’è un altro passaggio?
Rubo l’ idea a Steve Landsburg e alla sua battaglia per il “foro libero”, non penso abbia mai avuto un’ applicazione concreta e le varianti immaginabili sono molte. In soldoni, una causa su cinque (dieci, venti…) destinata al tribunale A, viene dirottata verso il tribunale B. Affinchè il soggetto debole non debba esporsi, decide tutto la sorte. Un tribunale indipendente sentenzia poi su eventuali conflitti di competenza. Naturalmente, prima che il gioco cominci, bisogna stilare una lista delle materie sottoponibili a sorteggio. Dove occorre la querela di parte il soggetto debole puo’ limitare di molto la sua esposizione comunitaria denunciando tutto al tribunale islamico ed entrando poi nel sorteggio. Oggi per costoro non c’ è che il silenzio e la sopportazione. Il soggetto forte deve limitare la sua sbruffoneria, poichè se ricorre al tribunale islamico rischia pur sempre per via del sorteggio. Resta fermo che se il soggetto debole non è così debole e ha la forza di chiedere lui stesso un foro di garanzia non islamico, la sua volontà va rispettata indipendentemente dal bussolotto. SL immagina anche che se il tribunale B, in una causa giuntagli per sorteggio, non trova il soggetto debole veramente debole, tra le decisioni che puo’ prendere c’ è anche quella di reinviare gli incartamenti giunti a lui per sorteggio al tribunale di provenienza.
Un aspetto non mi è chiaro. La corte islamica decide su argomenti che non sono soggetti alla legge (provo ad immaginare: posso mangiare carne di maiale?). Poi però io sono obbligato per legge — una volta accettata l’autorità della corte, d’accordo — ad accettarne il verdetto? Ma in questa maniera non si crea un pericoloso obbligo dello Stato nei confronti di una religione? Non si creerebbe una nuova fonte del diritto, seppure solo per chi liberamente la accetta? Per come la vedo io, una corte islamica ha il diritto a condannarmi all’Inferno, ma indipendentemente da ogni riconoscimento statale.
Il discorso in realtà è ancora più ampio della questione religiosa: si pensi ad esempio alla giustizia sportiva.
Una cosa non mi è chiara. La corte islamica decide su argomenti che non sono soggetti alla legge… poi però io sono obbligato per legge — una volta accettata l’autorità della corte, d’accordo — ad accettarne il verdetto?
Il problema non è il formalismo. Già oggi se noi due stipuliamo un contratto siamo soggetti alle clausole contrattuali (legge privata). E lo siamo proprio in base alla alla legge statale. Possiamo anche stabilire, osservando alcuni limiti, di ricorrere ad un arbitrato per sistemare eventuali dissidi.
Il problema formale non si presenta neanche per il fatto di essere di fronte ad una Religione: chi ci impedisce di vedere quel patto come un semplice elenco di clausole?
Il problema è semmai la sostanza: quel patto ha un oggetto lecito? Le libere volontà che lo sottoscrivono sono veramente libere?
Poichè spero di vivere in un Paese dove i patti con contenuto illecito siano pochi, poichè ho d’ istinto una certa fiducia nelle persone e poichè vedo nell’ auto-governo uno strumento di maturazione, io sono favorevole alla legge privata. Detto questo occorre escogitare degli strumenti per temperare i lati più minacciosi.
Detto questo, caro Galliolus, ti faccio una domanda: da cattolico saresti favorevole ad una privatizzazione dei matrimoni? Potresti sposarti, per ipotesi, secondo la formula cattolica che rende più oneroso (questa volta per legge) il divorzio. L’ eventuale separazione sarebbe giudicata da un tribunale ad hoc (così come ci sono le scuole cattoliche ci sarebbero i tribunali cattolici).
Purtroppo le adesioni ad una simile proposta non sono entusiastiche e la via cattolica al libertarismo non va mai molto più in là dei vouchers alla scuola. Secondo me è un’ occasione persa.
@broncobilly: Interessante. Una sorta di equità dettata dal caso.
Sulla faccenda dei matrimoni cattolici: in Austria accadeva una cosa simile. Se eri cittadino cattolico non potevi divorziare, mentre se appartenevi a un’altra fede sì. La cosa finì male: i cattolici, anche se non divorziati, si risposavano con apposita delega statale.
@Galliolus: Sì, si creerebbe una nuova fonte di diritto. Subordinata alla legge dello stato e all’accettazione delle parti. Come accade con un contratto. O con la giustizia sportiva citata da broncobilly: per un fallo decide l’arbitro – se durante la partita pugnalo l’avversario, oltre all’arbitro interverrà anche la polizia.
Se ho capito bene, il grosso del lavoro lo hanno con i matrimoni; un po’ come la Sacra Rota, che decide sul matrimonio (religioso, senza nulla togliere a quello civile – almeno in teoria).