Per Sartre l’opera d’arte è un irreale. Così il filosofo francese si esprime in Immagine e coscienza (Conclusione, II – L’opera d’arte).
Irreale perché il soggetto estetico non esiste: di un quadro sono reali “i risultati delle pennellate, la preparazione della tela, la sua grana, la vernice passata sui colori: tutte cose che non costituiscono affatto oggetto di valutazione estetica”.
Sartre è qui terribilmente platonico, e infatti poco dopo rispolvera l’idea platonica di bello: “ciò che è bello, invece, è un essere che non potrebbe darsi alla percezione e che, nella sua stessa natura, è isolato dall’universo”.
Ovviamente non sono solo i dipinti, o meglio il bello dei dipinti, ad essere irreali: anche le cattedrali e le composizioni musicali, o meglio il bello delle cattedrali e delle composizioni, sono irreali.
Prendiamo la sinfonia n. 7 in la maggiore op. 73 di Ludwig van Beethoven:
In linea generale ciò che mi attira al concerto è il desiderio di ascoltare la Settima sinfonia. Certo, avrei una certa ripugnanza ad ascoltare una orchestra di dilettanti, posso aver delle preferenze per il tale o tal altro direttore d’orchestra. Ma tutto ciò deriva dal mio desiderio ingenuo di udire la Settima sinfonia eseguita alla perfezione.
Tutto questo, ovviamente, prescindendo “dai casi aberranti in cui voglio sentire Toscanini nel suo modo di interpretare Beethoven”. Ascoltare Toscanini o Furtwängler è una aberrazione: non si fa.
Evidentemente per Sartre un direttore artistico che, per decidere se invitare o meno un direttore d’orchestra alla manifestazione che sta organizzando, andasse ad un concerto per ascoltare, appunto, Toscanini o Furtwängler, e non tanto Beethoven o Mozart, è un maledetto depravato, uno che non ha capito nulla di arte.
E non capiva nulla di arte neppure Bach: verso la fine del primo movimento del quinto Concerto Brandeburghese l’orchestra tace (o meglio tacet, come viene scritto sulla partitura) e il clavicembalo inizia ad improvvisare. È la cadenza strumentale: il solista, mero esecutore che dovrebbe semplicemente cercare la perfezione del compositore, inizia a suonare per i fatti suoi, fino al ritorno dell’orchestra. Una aberrazione.
Non c’è spazio per l’interpretazione: il fatto che l’ultimo movimento della settima sinfonia, Allegro con brio, sia puro fuoco che arde in Toscanini mentre Furtwängler lo renda più come un fiume in piena che travolge tutto, è semplicemente insignificante. Importa solamente il grado di perfezione raggiunta.
Lo stesso vale pure per il teatro: non ha importanza ambientare L’opera da tre soldi di Brecht a Londra o a Chicago, basta cercare di raggiungere la perfezione, la purezza del testo di Brecht, il suo bello impercettibile.
Sartre ha ragione: un’opera d’arte non si esaurisce nella percezione, non è soltanto qui e ora, nel luogo e nel momento della sua manifestazione. La settima sinfonia di Beethoven è sempre la settima sinfonia di Beethoven, sia che il direttore d’orchestra si chiami von Karajan, Abbado o Sinopoli.
Ma Sartre non sembra accorgersi che la musica è comunque ascoltata, percepita con le orecchie, e quello che si sente non è la settima sinfonia, ma l’interpretazione di Toscanini, che è diversa da quella di Furtwängler. Non migliore o peggiore, non più o meno vicina alla perfezione, ma semplicemente diversa. Infatti una persona può possedere entrambe le versioni e desiderare ascoltare ora l’una ora l’altra: desiderio inspiegabile, se una delle due deve essere necessariamente migliore dell’altra.
L’opera d’arte non si esaurisce nella percezione, ma neanche si proietta interamente nell’impercettibile. Ad un concerto una persona può anche chiudere gli occhi, è vero, ma le orecchie le terrà comunque ben aperte.