Uno dei nuovi diritti fondamentali del terzo millennio, almeno in Europa, è il diritto alla privacy o alla riservatezza.
Questo diritto, è bene chiarirlo da subito, non serve a tutelare l’individuo dalle ingerenze o intromissioni altrui. Il suo campo di applicazione non è l’azione, ma la conoscenza: non sarà la privacy a tutelare le mie libertà (di pensiero, di espressione, di movimento e così via).
Per riassumere il diritto alla privacy con un motto, si potrebbe dire che i panni sporchi (e anche quelli puliti) si lavano in famiglia. Nessuno può sapere qualcosa di me a meno che non sia io a comunicarla esplicitamente, dal momento che io sono il proprietario delle informazioni che mi riguardano.
Il diritto alla privacy ha più sostenitori che critici. Vale quindi la pena approfondire le ragioni dei critici. Secondo Jacopo Fo non sono i comuni cittadini ad avere bisogno di riservatezza: non avendo nulla da nascondere, i loro dati personali non hanno nulla da temere. Viceversa la criminalità ha tutti gli interessi a nascondere le propria attività, essendo queste illecite. In pratica, il diritto alla privacy è o inutile o pericoloso.
Questi discorsi hanno purtroppo un grosso limitate: considerano solo due attori sociali, io e tutti gli altri. I protagonisti invece sono tre: io, gli altri e tutti noi, ossia la comunità.
La riservatezza ha senso nel rapporto con gli altri, non in quelli con la comunità, della quale noi stessi facciamo parte.
Bisogno riconoscere che, se si percepiscono le varie istituzioni come parte della comunità solo in rari casi, non è solo colpa nostra.