La realtà viene semplicemente descritta tramite il linguaggio oppure viene anche conosciuta attraverso le categorie linguistiche? Detto altrimenti: se usassimo altre parole la realtà assumerebbe un aspetto diverso?
La domanda suona un po’ ridicola: se la verità è adaequatio rei et intellectus, è difficile pensare che, ad adeguarsi, sia la realtà e non l’intelletto. Tuttavia, una ricerca mostra come i russi, che usano due parole distinte per blu chiaro e blu scuro, riescono meglio a riconoscere questi colori (i dettagli dell’esperimento su Psicocafé).
Tommaso d’Aquino, del resto, l’aveva previsto: “cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis” (l’oggetto conosciuto è nel soggetto conoscente in conformità al soggetto conoscente).
Una sorta di relativismo linguistico (la realtà è almeno parzialmente relativa al linguaggio) comunque limitato: un linguaggio più potente aiuta a discernere i colori, ma di certo non permette di trasformare un oggetto rosso in uno blu semplicemente cambiando nome.
In poche parole: non basta chiamare terrorista qualcuno per trasformarlo in un membro “di un gruppo o di un movimento politico che si avvale di metodi illegali ed efferati per sovvertire il regime politico esistente” (De Mauro). Ma questa è un’altra storia.
Concordo, in effetti sembra che la Chiesa incontri più difficoltà nell’interpretare il dizionario che la Bibbia.
Ciao Ivo, vorrei ripetere qui un commento che ho fatto anche su Psicocafé. Primo, noi italiani siamo nella stessa situazione dei russi, perché anche noi abbiamo un nome per il “light blue”: azzurro (che distinguiamo dal “dark blue”: blu). Secondo, penso che sia impreciso dire che questo esperimento mostra che i russi “riescono meglio a riconoscere questi colori”: più semplicemente, la forzata categorizzazione linguistica rende i russi (e gli italiani) più veloci nel compiere la discriminazione. Già si sapeva che i colori per i quali abbiamo un nome sono più facili da ricordare, questo esperimento mostra che vengono anche distinti più rapidamente. Scusami per la pignoleria, in realtà tu presenti il problema in modo corretto, ma quella frase potrebbe suonare ambigua e far cascare qualche lettore nella rete (attraente e quindi appiccicosa) del relativismo linguistico. Ce l’ho un po’ su con la leggenda degli eschimesi e le loro decine di parole per descrivere la neve…
Complimenti per il bellissimo blog.
Grazie per i complimenti… spero di non rovinare tutto affermando che il relativismo linguistico non mi dispiace 😉
Ovviamente nella variante contemporanea: la neve degli eschimesi è la stessa della nostra, però la percezione è un processo dannatamente complicato…
La neve degli eschimesi è la stessa della nostra, e anche il sistema percettivo degli eschimesi è lo stesso del nostro… che la percezione sia un processo dannatamente complicato è dannatamente giusto, ma non si tratta di un gran argomento in una direzione o nell’altra, concordi?
naturalmente sono pronta a cambiare idea, ma temo di aver bisogno di un argomento più robusto 😉
Il contrario del relativismo linguistico (“il linguaggio modifica le percezioni”) lo potremmo chiamare assolutismo percettivo (“la percezione è passiva ricezione dell’oggetto”).
Se assumiamo “percezione” (e anche linguaggio) in un senso abbastanza ampio, la prima affermazione può essere vera, la seconda sicuramente falsa.
Con “senso abbastanza ampio” intendo ad esempio i test del riconoscimento del colore o quelli della visione cieca di afferrare un oggetto che la parte cosciente del cervello non vede.
Poi sì, le cose e gli occhi sono gli stessi, ma nei fumetti di Tex Willer ci vuole sempre un indiano per seguire una vecchia pista… e a me come “percezione” interessa più quella che permette di trovare una traccia nel deserto che quella artefatta dei laboratori.
Gli psicologi della Gestalt portavano questo classico esempio: i piatti sulla tavola sono dei cerchi, anche se lo stimolo che la retina riceve è quello di un ovale, e anche se i soggetti che osservavano un piatto socchiudendo gli occhi con condizioni di luce particolari vedono un ovale. (cito la Gestalt non perché affermino che è il linguaggio possa modificare la percezione, ma perché hanno appunto esteso il concetto di percezione).
Ma no, dai, quello che chiami assolutismo percettivo (“la percezione è passiva ricezione dell’oggetto”) non è il contrario del relativismo linguistico! E nessun addetto ai lavori crede all’assolutismo percettivo, solo la gente in strada ci crede (e gli psicologi lo chiamano “realismo ingenuo”).
Percepire è costruire, senza dubbio. Ma il linguaggio non c’entra. I bambini piccoli percepiscono “costruendo” proprio come noi, anche prima di apprendere un linguaggio e indipendentemente dal fatto che apprenderanno un linguaggio.
L’esempio che fai del cerchio/ovale è un esempio di costanza di forma; anche qui, mi piace lo spirito con cui porti l’esempio (la percezione non è ricezione passiva) ma pure questo nulla ha a che vedere con il relativismo linguistico.
E permettimi di dissentire benevolmente su un ultimo punto, così chiudiamo il cerchio: nei laboratori la percezione non è “artefatta” (se in quei laboratori si fa buona ricerca), cerchiamo solo di diminuire il rumore di fondo, che nella vita reale è assordante. Ogni sistema percettivo, dentro il laboratorio e fuori, è un indiano che cerca una traccia nel deserto. O per meglio dire, un indiano che si deve raccapezzare fra una moltitudine di tracce…
Siamo vittime del relativismo linguistico, quello che esiste davvero: intendiamo due cose diverse con “linguaggio”. Con linguaggio intendo qualsiasi manipolazione di segni (anche in assenza di un codice), e in questo caso anche gli animali sono linguistici, anche se ovviamente parlano solo nelle favole. Ovviamente, a guardare un qualsiasi dizionario, sono io che uso impropriamente il termine linguaggio (e che vi aspettavate da un relativista 😉 )
Quando a quello che si fa nei laboratori: giusto, gli scienziati stanno bene attenti a quello che fanno, e non intendevo certo criticarli su questo. Poi la storia insegna che quello che oggi è semplice rumore di fondo domani potrebbe diventare oggetto d’indagine, ma ciò non toglie la serietà degli scienziati.
Adottando la tua personale definizione di linguaggio mi pare che ci impantaniamo vieppiù. Primo, in che senso gli animali manipolano i segni: quali segni? Secondo, se ciò che vuoi dire è semplicemente che anche gli animali comunicano, non vedo come da questo discenda che “il linguaggio [=comunicazione] modifica le percezioni”.
Sono tante le forme di relativismo che mi sento di sottoscrivere, ma non questa!
Non ho detto che il linguaggio modifica la percezione, ma solo che è quest’ultima è relativa ad esso.
Comunque è vero: sto dicendo cose che sono per molti versi prive di senso…
mi pare tu l’abbia detto quattro post fa:
che oltretutto era ieri.
Se poi ora me la rigiri nel nuovo formato “la percezione è relativa al linguaggio”, peggio che andar di notte! Secondo me ti sei incartato definitivamente, ma che altro vi aspettavate da un relativistalinguistico 😉
Continuo ad essere un’accanita fan del tuo blog cionondimeno.
Meno male 😉
Però nell’articolo principale ho scritto
e in quel commento mi riferivo ai due estremi entrambi inaccettabili: al relativismo però concedevo un briciolo di verità.
Un briciolo appunto perché la percezione non è passiva ma attiva. Tutto il resto, ovvio, è tragicamente falso: andare a un corso di lingue non mi permette di vedere gli oggetti diversamente, per quanto possa migliorarmi la vita (come apprendere venti nomi diversi per la neve mi è d’aiuto se voglio vivere al polo nord).
Hmmm… dovrei mollare l’osso, e invece:
(1) quel briciolo di verità “perché la percezione non è passiva ma attiva”, io lo spazzolerei proprio via: percezione attiva non significa né implica percezione relativa (al linguaggio, poi). Si tratta di due domini che non si toccano, se chiedi a me.
(2) se al corso di eschimese pretendono di insegnarti venti nomi diversi per la neve, fatti dare indietro i soldi. Trattasi di bufala generata da un fraintendimento: la lingua degli eschimesi semplicemente congloba tante parole in una parola unica, come dire “nevefrescaefarinosa” invece di “neve fresca e farinosa”. Di qui la leggenda delle dozzine di nomi diversi per la neve.
È il tuo turno, se hai ancora qualche lama con punta 😉
Qualche lama dovrei averla, ma mi manca la forza di usarla: mollo l’osso e mi ritiro a meditare sul relativismo linguistico… e a come farmi rimborsare il corso di eschimese pagato anticipatamente 😉
Le domande che tirano in ballo grandi tempi di riflessioni sono sempre, per molti versi, “irrispondibili”.
Sicuramente, attraverso il linguaggio il reale viene ritagliato, circoscritto. Attraverso la lingua, si porzionano sfere dell’esperienza.
Ci sono lingue (senza pensare agli eschimesi, basta guardare ai finnici) in cui ci sono diversi nomi per la neve. Ci sono lingue a 2 colori e lingue ad 11 colori. Ci sono lingue (germaniche del ramo nordico) in cui i parenti di ramo paterno hanno nomi diversi da quelli di namo materno.
Ci sono lingue in cui esistono vari generi, uno dei quali contiene donne fuoco e cose pericolose (è il caso di una lingua arborigena dell’Australia, oggi estinta).
Questo non significa che un finnico o un eschimese percepisce la neve in maniera diversa dalla mia. Questo indica innanzitutto che un finnico o un eschimese ha una maggiore esperienza della neve (dato indubbio). Allo stesso tempo, indica che un bambino finnico, quando impara 10 nomi diversi, penserà alla neve in 10 modi diversi (a seconda del suo grado di compattezza, di lucentezza) a differenza mia, madrelingua italiana, per cui la neve è neve.
Un parlante di una lingua amerindiana che si forma in una cultura in cui si accorda importanza a due colori, uno che indica il “chiaro, l’altro che indica lo “scuro” sicuramente vede il rosso, lo percepisce visivamente. Però nel suo sistema di significati il tratto distintivo di quel colore non sarà il suo cromatismo, ma la sua chiarezza.
Sicuramente il linguaggio e nella fattispecie la lingua ci orienta nella conoscenza del reale e del mondo, sezionando la realtà. Questo è un dato indubbio, ampiamente dimostrato.
E’ vero, però, che esiste al contempo un elemento percettivo universale. Ad esempio, indipendentemente dal numero dei colori che ogni singola lingua (e ogni singola comunità) percepisce, è stato dimostrato (da Berlin e Kay, anni fa) che universalmente si accorda importanza alla distinzione fra chiaro e scuro. Che tutte le lingue a due colori, operano questa distinzione base e che anche nei sistemi a 10, 15 colori, si accorda importanza a questa opposizione.
Allo stesso modo, si è osservato che in tutte le lingue conosciute, non ce n’è nessuna in cui si dica “il tavolo è sotto il libro”. Universalmente, qualsiasi parlante di qualsiasi lingua dice “il libro è sotto il tavolo”.
Complimenti per il blog
@L.C.: Grazie per i complimenti.
Non mi è chiaro l’ultimo esempio: “il tavolo è sotto il libro” e “il libro è sotto il tavolo” descrivono due situazioni diverse; intendevi forse “il libro è sopra il tavolo”?
Una distinzione importante che completa quello che hai detto è tra vedere (percepire) e interpretare. La prima è passiva (per la soggettività, non certo per il cervello che lavora non poco per farci vedere il mondo), la seconda attiva. Per vedere il cielo devo solo aprire gli occhi, per capire se pioverà devo ragionarci un po’.
Ciao e grazie per il commento.
Si, mi ero sbagliata.
Intendevo esemplificare il fatto che la percezione avviene sempre dal più piccolo (il libro) al più grande (il tavolo). Questo è dimostrato dal fatto che in tutti i milioni di lingue esistenti (per esattezza, conosciute) il libro posto in relazione col tavolo viene percepito dall’alto. Si dirà: “il libro è SOPRA il tavolo”, e non “il tavolo è SOTTO il libro”. Il significato è esattamente lo stesso. C’è un libro sopra, un tavolo sotto. Nell’esprimerlo linguisticamente, qualsiasi parlante di qualsiasi lingua conosciuta, da priorità alla “superiorità spaziale” del libro e non all'”inferiorità spaziale” del tavolo.
Questo è un esempio nuovo (che sta già per diventare un classico fra i linguisti) a riprova del fatto che, al di là di un “relativismo linguistico” (per citarti) indubbio e inevitabile, esiste una “percezione primaria” (espressione appena coniata ^__^) che ci accomuna, in quanto appartenenti alla stessa specie.
Per la distinzione che hai fatto, concordo pienamente su tutti i fronti.
Un saluto
@L.C.: Adesso mi è chiaro, ed è una invarianza linguistica e percettiva molto interessante.
Grazie e ciao!