Su Radio Feltrinelli, il podcast dell’omonima casa editrice, Umberto Galimberti propone La casa di psiche, una rubrica di ragionamenti sui problemi d’oggi con gli strumenti della filosofia (se la parola podcast risulta incomprensibile, non si può che rimandare a wikipedia).
L’argomento della puntata numero 30 sono le vacanze ottimizzate. Galimberti si dilunga sul tema per quasi quindici minuti: molto, soprattutto se si tiene conto che, in genere, La casa di psiche ha una durata di cinque minuti circa.
Impossibile qui riprendere tutti i punti affrontati: per chi è interessato, c’è la registrazione in formato mp3 (o, per chi preferisce la lettura all’ascolto, una trascrizione da richiedere al sottoscritto). Nel complesso, le riflessioni di Galimberti si muovo sul labile confine tra la profonda verità e il banale luogo comune.
Un passaggio in particolare è meritevole di citazione:
Un’altra variante delle vacanze di oggi rispetto agli anni sessanta e settanta è l’accentuata passività, per compensare l’attività che abbiamo l’impressione caratterizzi la nostra vita lavorativa durante l’anno. È una passività determinata dalla globalizzazione, quindi dall’omogeneizzazione delle culture, per cui andiamo a Mosca o a Istanbul come si andrebbe a Roma o a Torino, dove troviamo gli stessi standard di vita, gli stessi alberghi, e se vogliamo gli stessi cibi: niente di nuovo, niente di avventuroso, nessuna personale iniziativa, nessun contatto se non sporadico e superficiale con l’altro e il diverso da noi.
Che lo spazio fisico non necessariamente coincida con lo spazio umano, sociale e personale, lo sapeva benissimo già Seneca: un celebre passaggio delle sue Epistulae Morales recita “Animum debes mutare, non caelum”.
Galimberti sembra tuttavia spingersi oltre: mentre Seneca ci dice che non necessariamente cambiando luogo si cessa di essere i soliti buzzurri, Galimberti ci informa che, causa globalizzazione e omologazione, saremo sempre e ovunque dei buzzurri, a Roma come a Mosca, a Torino come a Istanbul.
Prospettiva non proprio edificante. La globalizzazione, comunque, permette non solo di trovare un piatto di agnolotti in Turchia, ma anche di mangiare Kokoreç e Sarma in Italia: l’incontro con l’altro e il diverso è forse più a portata di mano di prima, basta saperlo cercare.
Dopo il lungo podcast di Galimberti, ho iniziato ad ascoltare Un americano a Parigi di George Gershwin. Questa composizione è autobiografica: nel 1928 l’allora trentenne Gerschwin fece davvero un viaggio a Parigi, e dall’amore per quella città e dalla nostalgia per gli Stati Uniti nacque questo piccolo capolavoro musicale.
Oggi un novello Gerschwin troverebbe a Parigi gli stessi McDonald’s di New York, gli stessi film proiettati nelle sale, le stesse canzoni trasmesse alla radio: non gli verrebbe mai in mente di comporre qualcosa di simile a Un americano a Parigi.
Poco male. Abbiamo già l’originale di Gerschwin: che l’aspirante artista cerchi ispirazione altrove. Gli stimoli non mancano.