Ancora sul dialogo tra Teganistene e Brasmenide.
Il dialogo inizia con una linea di gesso, o meglio con l’intenzione di tracciare una linea di gesso: una linea dovrebbe separare il reale dall’irreale (o inverosimile), il razionale dall’irrazionale, il dimostrabile dall’indimostrabile
Brasmenide muove obiezioni essenzialmente sul metodo, ossia sulla identificazione di reale, razionale e dimostrabile. Ma vi è anche altro da dire.
Innanzitutto sul materiale: perché un segno con il gesso? Strumento troppo grezzo per simili distinzioni raffinate.
La linea non deve prestarsi ad ambiguità: un segno chiaro che separi destra e sinistra, reale e inverosimile in maniera netta. Poi magari ci si sbaglia, e ci si corregge, ma che almeno non ci sia vaghezza!
Questa storia della linea, ricorda una superficie in parte rossa e in parte blu descritta da Peirce (Collected Papers 6.126).
Ogni punto della superficie sarà, ovviamente, o rosso o blu e, altrettanto ovviamente, nessun punto può essere sia rosso che blu. Cosa dire allora della linea di divisione tra le due zone? Il ragionamento di Peirce è, grosso modo, il seguente: i colori devono coprire una superficie e il colore di un punto di questa superficie è il colore nelle vicinanze del punto. Siccome le parti immediatamente vicine alla linea di confine sono metà rosse e metà blu, il confine non può che essere metà rosso e metà blu.
In conclusione: nessuna certezza, ma solo vaghezza. Eppure sempre Peirce scriveva che “è facile esser certi: basta essere sufficientemente vaghi” (CP 4.237). Riformuliamo la conclusione: l’unica certezza del confine sta nel suo essere tracciato col grezzo gesso.
E se al gesso non si può rinunciare, allora forse è meglio chiudere il discorso con le razionali dimostrazioni. Troppo poco vaghe per essere certe.